giovedì 29 novembre 2007

Come ammazzare la moglie e vivere felici



La prefazione del libro di Bruno Tinti, procuratore aggiunto a Torino, sembra illuminante.
Eccola.

Allora. Per prima cosa si ammazza la moglie. La si ammazza con particolare efferatezza, adoperando sevizie e agendo con crudeltà verso le persone sì da integrare l’aggravante prevista dall’art. 61 n. 4 del codice penale; (dunque la si accoltella più volte dopo averla legata e torturata per giorni e giorni) e lo si fa allo scopo di conseguire l’impunità dal reato di truffa per averla depredata di tutti i suoi averi (art. 61 n. 2 del codice penale).
Subito dopo essersi assicurati che sia morta davvero si corre dai Carabinieri insieme con un avvocato e, in sua presenza, si rendono dichiarazioni spontanee (che quindi saranno utilizzabili processualmente; in assenza dell’avvocato di quel verbale si può fare carta straccia), con le quali li si avvisa che la moglie è morta, che la si è ammazzata personalmente e che il cadavere si trova, con gli strumenti usati per torturarla e l’arma o le armi del delitto, in via tale numero tale al piano tale, interno tale; la porta è stata chiusa per evitare che estranei potessero contaminare il luogo del delitto ma la chiave viene consegnata illico et immediate ai Carabinieri.

I Carabinieri si recano sul luogo del delitto, constatano la rispondenza al vero di quanto denunciato dall’assassino, effettuano prelievi, accertamenti di Polizia scientifica e i necessari sequestri. Non arrestano il marito omicida perché:
1) Non sussistono specifiche e inderogabili esigenze attinenti alle indagini relative ai fatti per i quali si procede, in relazione a situazioni di concreto e attuale pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova, fondate su circostanze di fatto espressamente indicate nel provvedimento (art. 274 del codice di procedura penale comma 1 lett. A).
Il marito uxoricida infatti ha avvertito subito i Carabinieri che hanno raccolto tutte le prove e anche la sua confessione. Sicché è escluso ogni pericolo di inquinamento probatorio.
2) L’imputato non si è dato alla fuga né sussiste concreto pericolo che egli si dia alla fuga (art. 274 del codice di procedura penale comma 1 lett. B). L’uxoricida si è presentato immediatamente ai Carabinieri e questo, per giurisprudenza costante, esclude che dal suo comportamento possa desumersi l’intento di darsi alla fuga. E in effetti, se non si becca qualcuno con il piede sulla scaletta di un aereo diretto in Uruguay e con documenti falsi, non potremo mai dire che egli intende darsi alla fuga perché, se i documenti fossero veri, quello ci direbbe che sta per intraprendere un viaggio di piacere e non si potrebbe provare il contrario.
3) Non si può, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini, desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali, pensare che sussista il concreto pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede (art. 274 del codice di procedura penale comma 1 lett. C).
L’immediata confessione e l’essersi messo a disposizione dell’Autorità rendono impossibile ritenere che sussista il concreto pericolo eccetera. E comunque trattasi di incensurato e specchiato lavoratore che nulla permette di ritenere che intenda commettere gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata.

Quanto ai delitti della stessa specie di quello per cui si procede, il nostro aveva una moglie e ormai l’ha ammazzata. Iniziata l’indagine penale, il PM non chiederà misure cautelari e comunque il Giudice non le concederebbe per tutti i motivi sopra spiegati. L’indagine è brevissima, proprio perché le prove sono state tutte acquisite; basta sentire i testi indicati dall’uxoricida a spiegazione del suo gesto e quelli indicati dai parenti della vittima. Si arriva in breve all’udienza preliminare per il reato di cui agli artt. 575, 576 e 577 del codice penale (omicidio che prevede la pena dell’ergastolo).

Ebbene: l’uxoricida chiede di essere giudicato con il rito abbreviato che, a norma dell’art. 442 del codice di procedura penale comma 2, prevede che la pena, determinata tenendo conto di tutte le circostanze, sia diminuita di un terzo. Le circostanze aggravanti sono quelle di cui all’art. 61 n. 4 del codice penale (sono state adoperate sevizie) e 61 n. 2 (si è agito per assicurarsi il profitto della truffa).
La pena prevista è l’ergastolo. Solo che: l’uxoricida dimostra di avere ammazzato la moglie, e tanto crudamente, perché lei lo tradiva con il suo migliore amico, che, in quanto migliore amico, sarà ben lieto di confessare, a pagamento, una circostanza che non gli porta nessun nocumento – anzi, la moglie morta era giovane e bella e sarà invidiato da tutti – e che nessuno potrà smentire; sicché al nostro assassino tocca l’attenuante di cui all’art. 62 n. 2 del codice penale, aver agito in stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, avendo fortunosamente appreso dell’illecita e odiosa relazione della fedifraga. Inoltre l’uxoricida farà offerta reale di una congrua somma di denaro ai parenti della moglie, a risarcimento del danno morale e materiale cagionato – la donna era solita sovvenirli con periodiche donazioni –, sicché gli tocca anche l’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 del codice penale (risarcimento del danno).
Infine egli potrà godere delle attenuanti previste dall’art. 62 bis del codice penale che nessuno sa perché si concedono ma si concedono sempre; infatti si chiamano attenuanti generiche e vengono concesse perché si è tanto giovani, perché si è tanto vecchi, perché si è condotta una vita specchiata e meritevole, perché si è condotta una vita vergognosa ma la colpa non è tua, è del sistema, della scuola, della famiglia che tutti insieme hanno abusato di te, perché si è confessato, unica cosa giusta in questo caso, eccetera.

A questo punto il Giudice deve governare, bella parola, l’art. 69 del codice penale secondo cui, in soldoni, si deve stabilire se pesano più le attenuanti o più le aggravanti, o se pesano nella stessa misura, e, nel caso di prevalenza delle une o delle altre, applicare solo gli aumenti o solo le diminuzioni. Manco a dirlo, il caso di soccombenza delle attenuanti non esiste quasi nella giurisprudenza italiana; sicché:
1) Una volta venute meno le aggravanti, la pena per l’omicidio non è più quella dell’ergastolo ma quella della reclusione da 24 a 30 anni (omicidio del coniuge, art. 577 del codice penale).
2) I giudici non danno il massimo della pena manco se li ammazzi; quindi 24 anni.
3) Meno un terzo per il 61 n. 2, fa 16.
4) Meno un terzo per il 62 n. 6 fa 11,33 periodico.
5) Meno un terzo per il 62 bis fa 7,5.
6) Meno un terzo per il rito abbreviato fa 5.
7) Siccome la moglie la si è ammazzata prima del maggio 2006, 3 anni di reclusione sono abbonati per l’indulto.
8) Per i restanti 2 anni c’è la sospensione condizionale della pena.
9) Abbiamo comunque un anno di buono se le diminuzioni non vengono applicate nel massimo perché fino a 3 anni c’è l’affidamento in prova al servizio sociale.

A questo punto, di solito, tranquillizzo le mogli spiegando che tutto questo non è proprio verissimo perché il nostro saggio legislatore ha previsto l’art. 67 comma 1 n. 2 del codice penale che, nel caso di delitti originariamente puniti con la pena dell’ergastolo, limita le possibili diminuzioni, dovute ad attenuanti varie, fino a una pena minima di anni dieci. In genere molti mi fanno osservare saggiamente che questa è la legge attuale ma appena qualcuno che conta ammazzerà la moglie e sarà beccato questa norma sarà senz’altro abrogata. Io assento malinconicamente e comunque spiego che, se vogliamo restare proprio a termini di legge, in ogni caso si applica la legge Gozzini: per ogni anno di detenzione che sia stato scontato senza demerito – non con merito, buona condotta ecc., tutti concetti desueti, basta non aver fatto casino – si abbuonano tre mesi; sicché dopo cinque anni e qualche cosa si è ammessi alla detenzione domiciliare con ammissione al lavoro esterno, che vuol dire che la galera si sconta a casa quando si è finito di lavorare; più o meno come facciamo tutti noi.
Poi, arrivati a tre anni di pena residua, c’è l’affidamento in prova al servizio sociale. Così, in conclusione, alla fine ammazzare la moglie costa cinque anni di galera mal contati. Forse questa storiella è sufficiente per capire come mai la giustizia italiana funziona proprio poco e comunque male.

E' un ragionamento lineare.
Poi, come sempre, la realtà supera la giurisprudenza.

domenica 25 novembre 2007

LE LEGGI FONDAMENTALI DELLA STUPIDITA’ UMANA

I grandi personaggi carismatici/demagoghi moltiplicano/attirano gli stupidi trasformandoli da cittadini pacifici in masse assatanate


Quando la maggior parte di una società è stupida allora la prevalenza del cretino diventa dominante ed inguaribile

Fatti:

1. gli stupidi danneggiano l'intera società;

2. gli stupidi al potere fanno più danni degli altri;

3. gli stupidi democratici usano le elezioni per mantenere alta la percentuale di stupidi al potere;

4. gli stupidi sono più pericolosi dei banditi perché le persone ragionevoli possono capire la logica dei banditi;

5. i ragionevoli sono vulnerabili dagli stupidi perché:

* generalmente vengono sorpresi dall'attacco;

* non riescono ad organizzare una difesa razionale perché l'attacco non ha alcuna struttura razionale.

Prima Legge

Sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero degli individui stupidi in circolazione:

a) persone che reputiamo razionali ed intelligenti all’improvviso risultano essere stupide senza ombra di dubbio;

b) giorno dopo giorno siamo condizionati in qualunque cosa che facciamo da gente stupida che invariabilmente compaiono nei luoghi meno opportuni.

E’ impossibile stabilire una percentuale, dato che qualsiasi numero sarà troppo piccolo.

Seconda Legge

La probabilità che una certa persona sia stupida é indipendente da qualsiasi altra caratteristica della stessa persona, spesso ha l'aspetto innocuo/ingenuo e ciò fa abbassare la guardia.

Se studiamo la percentuale di stupidi fra i bidelli che puliscono le classi dopo che se ne sono andati alunni e maestri, scopriremo che è molto più alta di quello che pensavamo. Potremmo supporre che è in relazione con il basso livello culturale o col fatto che le persone non stupide hanno maggiori opportunità di avere buoni lavori. Però se analizziamo gli studenti ed i professori universitari (o i programmatori di software) la percentuale è esattamente la stessa.

Le femministe militanti potranno arrabbiarsi, ma la percentuale di stupidi è la stessa in ambo i sessi (o in tutti i sessi a seconda di come si considerano).

Non si può trovare nessuna differenza del fattore Y nelle razze, condizioni etniche, educazione, eccetera.

Terza Legge

Una persona stupida è chi causa un danno ad un altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita.

Quarta Legge

Le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale nocivo delle persone stupide. Dimenticano costantemente che in qualsiasi momento, e in qualsiasi circostanza, trattare e/o associarsi con individui stupidi si dimostra infallibilmente un costosissimo errore.

Quinta Legge

La persona stupida é il tipo di persona più pericolosa che esista.

Questa è probabilmente la più comprensibile delle leggi per la conoscenza comune che la gente intelligente, per quanto possano essere ostili, sono prevedibili mentre gli stupidi non lo sono.

Inoltre il suo corollario di base: "Una persona stupida è più pericolosa di un bandito" ci conduce all’essenza della Teoria del Cipolla. Esistono quattro tipi di persone in dipendenza del loro comportamento in una transazione:

Disgraziato (o Sfortunato): chi con la sua azione tende a causare danno a sé stesso, ma crea anche vantaggio a qualcun altro;

Intelligente: chi con la sua azione tende a creare vantaggio per sé stesso, ma crea anche vantaggio a qualcun altro;

Bandito: chi con la sua azione tende a creare vantaggio per sé stesso, ma allo stesso tempo danneggia qualcun altro;

Stupido: chi causa un danno ad un altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita




Il Professor Cipolla usa un diagramma come quello della figura 1.

L’asse delle X misura i vantaggi ottenuti dalle proprie azioni.

L’asse delle Y misura i vantaggi ottenuti da altri a causa delle proprie azioni.

Chiaramente, le persone nel quadrante I sono Intelligenti, le persone nel quadrante B sono i Banditi, le persone nel quadrante D sono i Disgraziati o Sfortunati, e le persone nel quadrante S sono gli Stupidi.

E’ anche abbastanza chiaro che a seconda della loro ubicazione in questa sistema le persone avranno un maggiore o minore grado di stupidità, intelligenza, banditismo, ecc. Si può sviluppare un’ampia varietà di combinazioni come i banditi intelligenti e i banditi stupidi, dipendendo dal rapporto beneficio/danno.

La quantità del danno dovrebbe misurarsi dal punto di vista della vittima e non del bandito, e ciò fa che la maggior parte dei ladri e criminali siano abbastanza stupidi.

Ognuno può utilizzare questo sistema per studiare la stupidità ed elaborare l’applicazione della Teoria del Cipolla in tutte le sue possibili varianti.

Ma la storia non finisce qui.

Se tracciamo una linea diagonale fra gli assi, vedremo che tutta la zona che si trova in alto a destra di questa linea corrisponde ad un miglioramento nel bilancio totale del sistema, mentre gli eventi e la persone dell’altro lato si associano ad un peggioramento.

Si possono effettuare una varietà di analisi interessanti studiando le variabili in ciascuno dei quadranti come Sd e Sb, lb e Id, Ds e Di, o in tanti subquadranti come uno desidera.

Per esempio la corda M nel lato inferiore destro della maglia delinea il bandito perfetto, uno che provoca esattamente tanto danno come a sua volta ne trae vantaggio. Ovviamente da ambo i lati della diagonale si trovano situazioni di banditi imperfetti. Bi corrisponde ai banditi intelligenti e Bs ai banditi stupidi.

In un mondo popolato esclusivamente da Banditi perfetti il sistema rimarrebbe equilibrato; i danni e i vantaggi si eliminano vicendevolmente. Lo stesso effetto si verificherebbe in un mondo popolato esclusivamente da Sfortunati perfetti.

Teoricamente le persone intelligenti forniscono il maggior contributo alla società in senso generale.

Però, per quanto possa sembrare brutto, anche i banditi intelligenti contribuiscono ad un miglioramento nel bilancio della società provocando nel complesso più vantaggi che danni. Le persone sfortunate-intelligenti anche se perdono individualmente possono tenere effetti socialmente positivi.

Senza dubbio, quando la stupidità entra in scena, il danno è enormemente maggiore del beneficio a chicchessia. Ciò dimostra il punto originale: l’unico fattore più pericoloso in qualsiasi società umana è la stupidità.

Cipolla segnala che, intanto che il fattore Y è costante nel tempo, come nello spazio, una società in ascesa tiene un percentuale maggiore di gente intelligente, come una società in declino tiene un allarmante percentuale di banditi con una forte fattore di stupidità (subquadrante Bs) fra le persone al potere ed egualmente un allarmante percentuale di sfortunati (area D) fra quelli che non sono al potere.

Cipolla osserva inoltre che le persone intelligenti generalmente sanno di esserlo, i banditi anche sono consci della loro attitudine e anche le persone sfortunate hanno un forte sospetto che non tutto vada per il verso giusto.

Ma le persone stupide non sanno di essere stupide, e questa è una ragione in più che li rende estremamente pericolose.

E questo fa ritornare alla domanda originale e dolorosa: sono stupido? Ho superato vari test di coefficiente di intelligenza con buoni risultati. Sfortunatamente, so come funzionano questi test e che non dimostrano niente.

Varie persone mi hanno detto che sono intelligente. Però neanche questo dimostra niente. Queste persone possono essere forse molto considerate per dirmi la verità. O al contrario potrebbero star tentando di usare la mia stupidità per trarne vantaggio. O potrebbero essere tanto stupidi quanto me.

Mi fermo con una piccola speranza: sono cosciente di quanto sono (o sono stato) stupido.

E questo indica che non sono completamente stupido.

martedì 13 novembre 2007

La misura della felicità



Autore: Ruffolo, Giorgio

Diventa concreta un’alternativa al PIL sviluppista? Sarebbe ora. Da la Repubblica del 4 novembre 2007

Sociologi, statistici e governanti sono tutti d’accordo: il Prodotto interno lordo non è più in grado di rappresentare il benessere delle nazioni. Il problema è con che cosa sostituirlo. Molti ci riflettono da tempo; adesso un convegno organizzato dalla Ue a Bruxelles sembra preparare una svolta anche istituzionale
Il tema della felicità non è nuovo nella storia del pensiero economico. Economisti classici come Stuart Mill hanno spiegato come la felicità non consista nell’abbondanza delle cose, ma nella loro qualità. In Italia Antonio Genovesi e Pietro Verri definirono alla fine del Settecento l’economia politica come «la scienza della pubblica felicità».
Di recente il tema è stato riproposto partendo da un dibattito promosso da Richard Easterlin sul «paradosso della felicità», e cioè sulla scarsa correlazione tra reddito e felicità, sia nello spazio (all’interno di ogni Paese o tra Paesi) sia nel tempo. Contributi particolarmente seri sono stati offerti da sociologi ed economisti come Daniel Kahneman e Richard Layard, e in Italia da Stefano Zamagni, Luigino Bruni e da altri economisti della Università della Bicocca di Milano.
A che cosa si deve questa riapparizione in una disciplina tuttora dominata dall’economicismo ultra? Questo paradosso è spiegato in più modi. Con l’aumento delle aspirazioni, che annulla l’aumento del piacere (dell’utilità, avrebbe detto Bentham). Con l’effetto dell’invidia e della rivalità, che fa dipendere la felicità propria da quella degli altri, in un continuo inseguimento.
Mentre questi fattori impediscono che all’aumento del reddito si accompagni un proporzionale aumento della felicità, non si dà spazio sufficiente al "consumo" di beni relazionali e cioè a quelli che ci arricchiscono gratuitamente. Come nello scambio delle idee: se ci scambiamo un dollaro, ciascuno resta con un dollaro; se ci scambiamo un’idea, ciascuno resta con due idee.
Dobbiamo però chiederci anzitutto perché quel tema è per tanto tempo impallidito. Ai suoi primordi la scienza economica si occupava di società che col nostro metro giudicheremmo povere e ristagnanti, nelle quali i problemi della allocazione e della distribuzione ottimale delle risorse prevalevano su quelli dello sviluppo. Con la rivoluzione industriale l’economia dell’Occidente è stata investita da un’onda di crescita, tranne alcune pause critiche, praticamente continua. Nelle società coinvolte dalla crescita quantitativa dei beni prodotti sul mercato, dopo secoli, anzi millenni di ristagno era comprensibile che il concetto di benessere fosse associato con la quantità di beni disponibili.

Dopo due secoli di crescita quantitativa, però, è emersa una specie di nausea della crescita. Dappertutto, i sondaggi sul grado di felicità delle persone rivelano che la felicità non cresce più con l’aumento della produzione. A partire grosso modo dagli anni Settanta del secolo scorso le due curve, quella della quantità di beni disponibili, misurata dal Pil (Prodotto interno lordo) e quella della felicità, misurata da indagini condotte sull’umore dei singoli individui, si sono separate. La prima ha continuato a crescere, la seconda è diventata piatta. La ragione sta nella differenziazione dei bisogni, dei costi e dei gusti tipica di una società complessa, la quale non può essere riflessa in un indice rozzamente quantitativo che ci dice soltanto quanti beni sono stati prodotti e consumati nel mercato.

Detto nei termini più semplici possibile, l’ormai famigerato Pil comporta tre ordini di gravi difetti. Primo: somma solo i beni prodotti nel mercato, quindi esclude quelli forniti nelle relazioni gratuite tra le persone, nelle famiglie o nelle comunità, mentre conteggia come beni i mali che sono prodotti e consumati nel mercato (droga, guadagni criminali, sfruttamento della prostituzione, consumo irreversibile dell’ambiente, inquinamento, effetto serra eccetera). Secondo: non dà alcuna importanza al modo, più o meno equo, col quale i beni sono distribuiti. Nel Pil vige la legge di Trilussa: due polli a me, nessuno a te, dunque un pollo a testa. Terzo: non dà valore ai beni forniti dalla natura, che considera dissennatamente gratuiti e dei quali fa scempio, distruggendo in pochi mesi risorse accumulate per tre miliardi di anni e trattando (peccato singolare per un economista) il capitale naturale come se fosse un reddito.

C’è un quarto "difetto" cui abbiamo accennato, che però non dipende da come è costruito il Pil, ma da come si sta trasformando l’economia capitalistica. Il mercato è sempre più trascinato dalla pressione competitiva che investe non solo la produzione ma, attraverso la pubblicità, anche i consumi, verso i cosiddetti consumi "posizionali" o competitivi: quelli che non esprimono bisogni originali ma bisogni che dipendono da quelli altrui. Si tratta di bisogni per loro natura insaziabili, che generano infelicità. Un esempio? Lo prendiamo da una divertente vignetta del famoso disegnatore Steinberg pubblicata tanto tempo fa dal New Yorker. Era composta di scene successive, Nella prima lui, uscendo di casa in bicicletta, vede il suo vicino uscire dal garage su una utilitaria. Nella seconda lui esce con una utilitaria, ma il vicino con un’auto poderosa. Nella terza lui esce trionfante, affrontando un traffico congestionato, con una ingombrante e costosa auto; ma il vicino scorre via sereno attraverso il traffico su una bicicletta, Qui l’impulso mimetico è diretto e circolarmente frustrante. Se ci si mette la pubblicità, è moltiplicato per mille.

Insomma, man mano che «la crescita cresce», crescono i suoi sprechi e le sue magagne che si riflettono in un Pil bugiardo come misura della felicità. Queste magagne e questi sprechi emergono e sono percepiti sempre più diffusamente, grazie anche al contributo di economisti non ossessionati dalla crescita e non contaminati da tendenze apologetiche verso il potere.

Dobbiamo quindi abbandonare il Pil? Come dice un libro recente, «depilarci»? (Depiliamoci, di Maurizio Pallante, Editori Riuniti). Alcuni autorevoli economisti, come Amartya Sen, col suo Indice dello sviluppo umano adottato dalle Nazioni Unite e come Herman Daly con il suo Indice dell’economia sostenibile, si sono provati a "depilarlo", depurandolo dalle sue più evidenti insensatezze. Sforzi meritori che tuttavia incontrano la difficoltà insita nel sostituire, quando i conti del Pil risultano manifestamente infondati, i prezzi del mercato con dei prezzi "imputati". L’inconveniente è evidente: i prezzi di mercato sono, con tutte le loro storture, realtà oggettive. Gli altri sono giudizi soggettivi, quindi opinabili.

E allora? C’è chi propone di sostituire il Prodotto interno lordo con la Felicità interna lorda: il Pil con la Fil. Per esempio il re del Bhutan, un piccolo Paese asiatico dove mancano l’acqua potabile e i diritti civili. In quel caso, la felicità coincide con quel che ne pensa il re.
C’è poi chi tenta di misurare oggettivamente la felicità con metodi artigianali (per esempio, infilare la mano del "paziente" nell’acqua calda: pare che i più felici resistano di più) oppure con calcoli neurologici e psicologici sofisticati che danno luogo a certe graduatorie, esibite senza vergogna. Secondo Andrei Oswald, per esempio, la frequenza dei rapporti sessuali o un matrimonio solido sono "quotati" 100mila dollari all’anno, mentre un lutto di famiglia "vale" una perdita di 245mila dollari. C’è una quotazione per un sorriso, e un’altra per una preghiera. Così, i prezzi del mercato sono sostituiti dai prezzi Oswald. Meglio i primi! La lettura di questi testi può essere, in termini di felicità, deprimente. Si rischia di simpatizzare con Wilfredo Pareto che respingeva decisamente ogni confronto tra diverse felicità (lui diceva utilità).
Pure, il problema resta. Come si fa a valutare, diciamo meno enfaticamente, il benessere di una società senza incorrere nell’arbitrarietà degli esperti o del re del Bhutan? Secondo me, in due modi. Primo, rinunciando a una misura unica. Non si può ridurre il benessere a un numero. Esso è costituito da una serie di fattori irriducibili meccanicamente l’uno all’altro. Bisogna tenere separati questi fattori - ambiente, sicurezza, salute eccetera, - misurandoli con altrettanti indici specifici, come fanno le Nazioni Unite con il loro Isu. Secondo, affidando la scelta ottimale tra le loro possibili combinazioni, non agli statistici, ma al giudizio politico democratico.

Non esiste infatti un optimum di felicità eguale per tutti i Paesi, da scoprire. Può invece esistere una combinazione di fattori di benessere diversa per ciascun Paese, da scegliere. In tal caso, la misura del benessere-felicità, diventa, non una constatazione "positiva", ma una scelta "normativa". Non un dato, ma un obiettivo. Ogni Paese dovrebbe scegliere democraticamente il suo quadrante di felicità, valido per un certo periodo, costituito da una combinazione di traguardi che darebbero senso a una discussione politica che lo sta perdendo. Il giudizio se stia meglio l’Italia o l’Inghilterra non sarebbe possibile come lo è tra squadre in un campionato, secondo un Pil insignificante. Sarebbe esso stesso un giudizio discutibile. Niente però potrebbe impedire a entità sovranazionali, come l’Unione europea, di mettersi d’accordo su un quadrante comune. Anzi, questo sarebbe il miglior modo di perseguirla.

lunedì 12 novembre 2007

Il suo spirito non c'è



DEBUTTO con polemica per il Roma FictionFest, che si è aperto oggi con una delle anteprime più attese, quella di Rino Gaetano - Ma il cielo è sempre più blu, in cui un bravo Claudio Santamaria interpreta il cantautore scomparso a 31 anni nel 1981. La sorella del cantante, Anna, in un'intervista al magazine Primissima si è detta "non soddisfatta" della fiction (per la quale ha fatto da consulente) che avrebbe "inventato" e "romanzato" intorno alla vita del fratello, insistendo su alcuni punti - il conflitto col padre, il rapporto con l'alcol - in maniera non veritiera. Affermazioni che, durante la conferenza stampa che ha seguìto l'anteprima, all'Auditorium Conciliazione, costringono Agostino Saccà, il direttore di RaiFiction (che produce il film) a precisare: "Non abbiamo tradito Rino Gaetano". E il regista, Marco Turco: "Prima di sceneggiare abbiamo approfondito la ricerca, intervistato la sorella, gli amici, alla fine abbiamo cercato di restituire al meglio la sua anima e la sua forza".

Calabrese di nascita, romano d'adozione, Rino Gaetano moriva 26 anni fa dopo una vita breve, intensa e confusa. Il film, che prende il titolo da uno dei suoi successi e che andrà in onda in due puntate su RaiUno fra ottobre e novembre, ne ripercorre la vita dagli anni Sessanta: il conflitto col padre, l'attore Nicola Di Pinto (uno degli aspetti della fiction che la sorella contesta, ricordando che invece il loro era un bel rapporto), la scoperta della musica, gli amici come Barone (Ninetto Davoli), le donne. Due, soprattutto: Irene (la bella Kasia Smutniak), ragazza di buona famiglia che perde la testa per lui ma non ne saprà comprendere le intemperanze, e Chiara (Laura Chiatti), furba e ambiziosa.

Poi il successo, il Festival di Sanremo (1978, terzo posto con Gianna), il difficile equilibrio tra la celebrità improvvisa e le incertezze che lo avrebbero fatto spesso rifugiare nell'alcol (altro punto contestato dalla sorella, "un conto è il piacere del bere, un conto è farlo bere così tanto"), le incomprensioni con Irene e con il mondo del mercato discografico al quale sentiva di non appartenere. Fino all'ultimo viaggio (finirà contro un camion lungo la via Nomentana, a Roma, sarà rifiutato da cinque ospedali e morirà all'alba per le ferite riportate), del quale nel film si mostra solo l'inizio, per poi sfumare su immagini di repertorio.

Dieci chili di meno e una voce che ricorda in maniera impressionante quella del cantautore: Claudio Santamaria (il Dandy di Romanzo criminale) racconta di aver letto tutte le biografie dedicate all'artista e di aver tratto ispirazione "dagli autori che leggeva, Dante, Pavese, Palazzeschi, dalla musica che ascoltava, dalle apparizioni in tv. Volevo tirare fuori un lato di lui che non si è mai visto - spiega l'attore - la parte più poetica e fragile".

Per Santamaria, Gaetano era "un poeta prima di ogni altra cosa, e un giullare, un dissacratore che sapeva sdrammatizzare ma senza essere superficiale. Conoscevo le sue canzoni - spiega - ma non la sua vita, non sapevo che da piccolo fosse stato in collegio. Cantare per me non è stato un problema perché ho avuto un gruppo. Poi, lui cantava più col cuore che con la tecnica, le sue erano performance, ho visto che una volta si presentò a uno show di Corrado con indosso una muta da sub...".

Ornella Vanoni, Tetes de Bois, Afterhours, Paolo Rossi che ha portato un suo inedito all'ultimo Festival di Sanremo: le canzoni di Gaetano sono state più volte reinterpretate "perché sono sempre attuali - dice ancora Santamaria - basta guardare il testo di Nuntereggaepiù, sembra scritto ieri. E' un bene non dimenticare un artista che non s'è voluto schierare, e che quella scelta l'ha pagata".

lunedì 5 novembre 2007

Occhi chiusi sui poligami d’Italia

di Magdi Allam
Nell'attesa che prendesse il via la cerimonia del «Premio Penisola Sorrentina Arturo Esposito», svoltasi a Piano di Sorrento il 31 ottobre e in cui mi è stata conferita la Targa d'Argento del Presidente della Repubblica, mi si avvicina un giovane sindaco di un paesino della zona per salutarmi. «Da noi ci sono tanti immigrati perfettamente integrati — mi dice — problemi con loro non ne abbiamo mai avuti, è tutta brava gente e noi diamo loro anche la casa popolare». «Bene — ribatto io — il Meridione si conferma essere la terra migliore per la felice convivenza con gli stranieri».
Il sindaco annuisce ma, quasi a volermi fare una confidenza aggiunge: «C'è solo un caso che mi sta creando qualche problema. Si tratta di un marocchino. Gli abbiamo dato la casa popolare ma è tornato al Comune e mi ha chiesto di attribuirgli un secondo appartamento. Ma come, gli ho detto io, un secondo appartamento? Sì, mi ha spiegato, perché sono tornato in Marocco, mi sono risposato secondo il rito islamico. La mia seconda moglie avrà dei figli e voglio che anche loro abbiano una loro casa». Il sindaco mi guarda un po' perplesso: «Gli ho risposto che no, non è possibile, la nostra legge non lo consente. Poi mi sono consultato con il mio consigliere di fiducia e lui mi ha detto che forse è meglio venirgli incontro per prevenire l'insorgere di tensioni con la comunità marocchina». E allora che cosa fa il nostro giovane sindaco? «L' ho convocato in Comune e gli ho detto. Senti, un secondo appartamento proprio non te lo posso dare perché sarebbe contro la legge. Però fai così. Mandami tuo fratello e digli di presentare lui la domanda per avere l'appartamento. Io a lui l'appartamento glielo posso dare. Poi chi ci mettete dentro sono fatti vostri».
Il sindaco alza gli occhi per scoprire quale sarebbe stata la mia reazione emi domanda: «Lei dottor Allam cosa ne pensa? Ho fatto bene?». La mia risposta deve essergli suonata come un micidiale pugno nello stomaco: «Lei sa bene che in Italia la bigamia è un reato penale punibile da uno a cinque anni di carcere. Lei come rappresentante delle istituzioni dovrebbe essere tenuto a denunciare un reato penale. Si rende conto che se è lo Stato stesso a violare le proprie leggi, andremo dritti dritti verso il suicidio della nostra civiltà?». Il sindaco mi guarda sconcertato e imbarazzato: «Sì è vero, ma non è facile». Non è facile? Non è facile per le istituzioni dello Stato far rispettare le leggi dello Stato? Perché siamo arrivati al punto in cui un sindaco si trova costretto ad essere connivente con un poligamo e corresponsabile di un atto che scardina il fondamento della nostra società e civiltà, ovvero la famiglia monogamica che implica la pari dignità tra uomo e donna?
Già, la dignità della persona. Recentemente si è rivolta ame una donna italiana che ha scoperto che il marito egiziano aveva una seconda moglie il giorno in cui, dopo aver richiesto un certificato di stato di famiglia, a fianco del nome suo e di quello del marito è comparso quello di una neonata che non era sua figlia. Il marito non aveva avuto remore a farla registrare all'anagrafe italiana, dopo essersi risposato con il solo rito islamico in Egitto e aver portato la seconda moglie in Italia con un visto turistico, senza neppure informare la moglie italiana. Ebbene sapete come finiranno queste due storie? Il poligamo marocchino avrà il suo secondo appartamento per la sua seconda moglie e il poligamo egiziano potrà tranquillamente continuare a risiedere in Italia con la sua seconda moglie indipendentemente dal comportamento della prima moglie italiana.
E sapete perché? Perché di fatto nessuna legge è stata violata dal momento che il matrimonio islamico, assolutamente valido nei paesi musulmani, è considerato nullo dallo Stato italiano e quindi senza effetti civili. Alla fine saranno contenti tutti i maschi: il giovane sindaco meridionale e i mariti poligami. Quanto alle donne poligame, nulla da fare per loro. E le conseguenze per la nostra società e civiltà? Facciamo finta di niente, l'importante è il rispetto formale delle leggi anche se sono del tutto in contrasto con la verità dei fatti, il bene comune e l'interesse nazionale.
03 novembre 2007

giovedì 1 novembre 2007

Bruno Tinti


Bruno Tinti è nato tanti anni fa, molti di più di quanto gli piacerebbe. Ama andare in motocicletta, sciare, arrampicare, giocare a tennis, viaggiare in camper; insomma gli piace godersi la vita. In realtà ci è riuscito poco, perché ha sempre lavorato sodo, e sempre nel campo penale.

Nel lavoro è stato fortunato perché ha avuto come capi persone straordinarie, prima Mario Carassi e poi Bruno Caccia, morto ammazzato per le solite ragioni per cui si ammazza un magistrato: troppo onesto, troppo efficiente, intransigente, non condizionabile. Da loro ha imparato sul campo tutto quello che è importante sapere per fare il magistrato, senza cui diritto e procedura servono a poco; anzi sono strumenti pericolosi.

Da più di venticinque anni si occupa di diritto penale dell’economia, falsi in bilancio, frodi fiscali, reati fallimentari e finanziari, tutta roba difficile da gestire nel contesto politico e giudiziario italiano.

Per qualche anno ha fatto anche il professore all’università, ma ha scoperto che era troppo faticoso: professore e Procuratore della repubblica riempiono due vite; e a lui quella che aveva serviva anche ad altro.

In tempi meno conflittuali è stato anche consulente di qualche ministro e ha scritto la legge che punisce i reati tributari, in vigore ancora adesso; solo che se ne lamenta tutte le volte che gliene parlano perché il Parlamento (tutti d’accordo, senza distinzione tra maggioranza e opposizione) gliel’ha cambiata e quella che è venuta fuori è l’ennesima legge fatta per non funzionare. Questa stessa tecnica è stata utilizzata per quasi tutte le leggi che riguardano il suo settore professionale, reati societari e fallimentari in particolare; e così progressivamente il suo lavoro è diventato più o meno inutile. Sicché un’altra cosa che dice sempre è che si è stufato di lavorare in un’azienda in cui entrano camion carichi di carta ed escono camion carichi di carta.

Ha cercato di trovare soluzioni nell’organizzazione del lavoro; si è specializzato in informatica giudiziaria, ha tentato assetti organizzativi degli uffici che ottimizzassero quella che lui chiama la gestione della «fuffa», in modo da lasciare tempo e risorse per fare i processi importanti. Niente da fare. L’informatica è vista come una rottura di scatole da quasi tutti i magistrati che hanno da trentacinque anni in su; e poi comunque costa un sacco di soldi e ai politici non pare vero di aver trovato il sistema per tenere in pugno la giustizia. E i processi da quattro soldi debbono essere obbligatoriamente trattati con lo stesso codice di procedura penale che si usa per fare un processo per omicidio; così naturalmente durano più o meno altrettanto.

Non sopporta i pregiudizi e quindi le fazioni: sicché non gli piacciono i «partiti» né le «correnti» in cui è divisa la Magistratura. Anche lui non piace molto né agli uni né alle altre. Alla fine ha trovato qualche collega che aveva avuto le stesse esperienze; e tutti insieme hanno pensato di spiegare ai cittadini perché le cose vanno così male nella giustizia italiana.

Ne è uscito questo libretto.

La favola del pescatore di salmoni



Uscito su "Il Gazzettino" il 19/10/2007

Fa piacere commentare, una volta tanto, una bella storia. Ci arriva
dalla Scozia profonda e il nostro giornale - l'unico, mi pare - ne ha
dato conto nei giorni scorsi. Ma val la pena di ripercorrerla per i
lettori cui fosse sfuggita.
Dunque, la storia è questa. Il supermiliardario americano Donald
Trump, come se i soldi che ha non gli bastassero, come se non gli
occorressero dieci vite per poterseli godere, si è lanciato
nell'ennesima speculazione. Ha comprato un vastissimo terreno sulla
costa scozzese, a Balmedie, a nord di Aberdeen, e vi sta costruendo
un enorme campo da golf, un albergo a cinque stelle (il Trump
International Resort) e tutti i lussuosi annessi e connessi che
accompagnano questo tipo di insediamenti. Ma ha fatto i conti senza
l'oste. Che in questo caso si chiama Michael Forbes, un pescatore di
salmoni di 55 anni che è proprietario di nove ettari di terreno su
cui vive, insieme a polli, galline, oche, conigli, con la vecchia
madre 83enne, lui in una modestissima casa, lei addirittura in una
roulotte. E la sua proprietà Forbes non la vuole vendere.
Il guaio è che quei nove ettari tagliano proprio a metà il progettato
e favoloso campo da golf e sono inoltre essenziali per tutta la
logistica dell'insediamento. Quando gli emissari di Trump si sono
trovati davanti al no di Forbes, un pescatorucolo la cui esistenza
non avevano nemmeno messo in considerazione, si sono messi a ridere.
Sapevano che il magnate aveva argomenti molto convincenti. E infatti
Trump ha innalzato gradualmente l'offerta fino a portarla a una cifra
venti volte superiore al valore economico del terreno. Ma non c'è
stato niente da fare. Ha spiegato Forbes al Guardian: " Per me questo
posto non ha prezzo. Non lo venderei mai. Tutta la mia famiglia viene
da qui. Mio nonno pescava qui, mio padre pescava qui e così anche mio
zio. Io sono l'ultimo e custodirò questo luogo".
Una bella lezione per il magnate americano, abituato a ragionare in
dollari, in euro, in sterline, in barili di petrolio. Non tutto è
denaro. Non tutto si può comprare con il denaro. Ci sono valori, per
quei pochi ancora che li custodiscono e li onorano (magari ormai
solo, in Occidente, nella remota e tradizionale Scozia), che non
hanno prezzo: l'identità, la dignità, il senso. Vivendo della propria
abilità di pescatore e della perizia di allevatore, sulla terra dei
propri avi, l'esistenza di Michael Forbes ha una dignità e un senso,
con le tasche piene di dollari e una camicia a fiori a Miami Beach li
perderebbe.
Di fronte al no, per lui incomprensibile, di Forbes, Donald Trump ha
reagito nel solo modo in cui sono capaci questi individui: con la
violenza dell'economico. Ha scagliato contro il pescatore le
televisioni e i giornali locali perché sostengano che Forbes
danneggia lo sviluppo della zona. Ma forse anche gli altri abitanti
di Balmedie hanno capito che un complesso come quello progettato da
Trump, oltre a distruggere l'equilibrio della loro terra, su cui
hanno vissuto serenamente per secoli, porta un benessere solo
apparente. Se infatti il progetto di Trump dovesse andare comunque in
porto i prezzi nell'intera zona salirebbero alle stelle e quella
gente da povera, ma dignitosa, che era, diventerebbe miserabile, come
è successo a tutte le popolazione del Terzo Mondo dove abbiamo
portato il cosiddetto 'sviluppo'.

di Massimo Fini