lunedì 28 aprile 2008

Va tutto molto bene







di Marco Travaglio(Giornalista)


da Voglioscendere

Spiaceva quasi, l’altroieri, sentire l’intera piazza San Carlo che sfanculava ogni dieci minuti Johnny Raiotta, il direttore del Tg1 che fa rimpiangere Mimun.Troppi vaffa per un solo ometto.Poi però uno rincasava, cercava il servizio del Tg1 di mezza sera su una manifestazione criticabilissima come tutte, ma imponente, che in un giorno ha raccolto 500mila firme per tre referendum.Invece, sorpresa (si fa per dire): nessun servizio, nessuna notizia, nemmeno una parola.Molti e giusti servizi sul 25 aprile dei politici, sulle elezioni a Roma, sul caro-prezzi, sul ragazzino annegato, poi largo spazio alle due vere notizie del giorno: le torte in faccia al direttore del New York Times e la mostra riminese su Romolo e Remo (anzi, per dirla col novello premier, Remolo).Seguiva un pallosissimo Tv7 con lo stesso Raiotta, Tremonti, la Bonino e Mieli che discutevano per ore e ore di nonsisabenechecosa.Raiotta indossava eccezionalmente una giacca, forse per riguardo verso il direttore del Corriere.Questo sì che è servizio pubblico.Così, nel tentativo maldestro di contrastare - oscurandolo - il V-Day sull’informazione, Johnny Raiotta del Kansas City ne confermava e rafforzava le ragioni.E anche i giornali di ieri facevano a gara nel dimostrare che Grillo, anche quando esagera, non esagera mai abbastanza.Il Giornale della ditta, giustamente allarmato dal referendum per cancellare la legge Gasparri, sguinzaglia per il terzo giorno consecutivo un piccolo sicario con le mèches in una strepitosa inchiesta a puntate: “La vera vita di Grillo”.Finora il segugio ossigenato ha scoperto, nell’ordine, che Grillo: da giovane andava a letto con ragazze; alcuni suoi amici, invidiosi, parlano male di lui; la sua villa a Genova consuma energia elettrica; ha avuto un tragico incidente stradale; è genovese e dunque tirchio (fosse nato ad Ankara, fumerebbe come un turco); nel suo orto ha sistemato una melanzana di plastica; ha avuto un figlio “nato purtroppo con dei problemi motori” (il giornalista è un cultore della privacy); e, quando fa spettacoli a pagamento, pretende addirittura di essere pagato.Insomma, un delinquente.E siamo solo alla terza puntata: chissà quali altri delitti il Pulitzer arcoriano - già difensore di Craxi, Berlusconi, Dell’Utri e Mangano - scoprirà a carico di Grillo.Nell’attesa, il Giornale ha mandato al V2-Day un inviato di punta, Tony Damascelli. Il quale, mentre il Cainano riceve il camerata Ciarrapico, paragona Grillo a Mussolini chiamandolo Benito e poi si duole perché piazza San Carlo ha applaudito a lungo Montanelli (fondatore del Giornale quand’era una cosa seria) e Biagi, definito graziosamente “il grande disoccupato”.La scelta di inviare Damascelli non è casuale, trattandosi di un giornalista sospeso dall’Ordine dei Giornalisti perché spiava un collega del suo stesso quotidiano, Franco Ordine, spifferando in anteprima quel che scriveva all’amico Moggi. Siccome l’Ordine non è una cosa seria, lo spione non fu cacciato, ma solo sospeso per 4 mesi. E siccome Il Giornale non è (più) una cosa seria, anziché licenziarlo l’ha spostato in cronaca. E l’ha mandato al V-Day che aveva di mira, fra l’altro, l’Ordine dei Giornalisti. Geniale.Il Foglio, per dimostrare l’ottima salute di cui gode l’informazione, pubblicava proprio ieri un articolo di Roberto Ciuni, ex P2.Ma, oltre ai giornalisti-cimice, abbiamo pure i giornalisti-medium. Quelli che non han bisogno di assistere a un fatto per raccontarlo: prescindono dal fattore spazio-temporale.Il Riformista, alla vigilia del V-Day, già sapeva che sarebbe stata una manifestazione terroristica, “con minacce in stile Br ai giornalisti servi” (“Le Grillate rosse”).Ecco chi erano i 100 mila in piazza San Carlo: brigatisti.Francesco Merlo se ne sta addirittura a Parigi: di lì, armato di un telescopio potentissimo, riesce a vedere e a spiegare agli italiani quel che accade in Italia.Ieri ha scritto su Repubblica che “in Italia c’è sovrapproduzione di informazione” (testuale): ce ne vorrebbe un po’ meno, ecco.Quanto a Grillo, è “in crisi” (2 milioni di persone in 45 piazze) e “non riesce a far ridere” (strano: ridevano tutti).Poi, citando Alberoni (mica uno qualsiasi: Alberoni), ha sostenuto che “in piazza c’erano umori che non s’identificano con Grillo”.Ecco, Merlo è così bravo che, appollaiato tra Montmartre e gli Champs Elysées, riesce a penetrare la mente e gli umori dei cittadini in piazza a Torino, Milano, Bologna, Roma.E spiega loro che cosa effettivamente pensano.Più che un giornalista, un paragnosta.Finchè potrà contare su fenomeni così, l’informazione in Italia è salva. Di che si lamentano, allora, Grillo e gli italiani?

domenica 13 aprile 2008

La notte della Repubblica, ma anche della democrazia e della ragione


di Felice Lima(Giudice del Tribunale di Catania)Il sen. Clemente Mastella ha pubblicato sul suo blog il decreto di archiviazione che lo riguarda con riferimento all’indagine avviata nei suoi confronti dal collega De Magistris.Insieme al decreto di archiviazione si trovano sullo stesso blog due articoli del Riformista e dell’Avvenire dal contenuto veramente surreale.Il guaio è che le opinioni espresse con tanta sicumera in quegli articoli sono quelle condivise anche da altri.Il che impone una riflessione su come sia possibile che nel nostro Paese le condizioni della libertà di stampa (Il rapporto di Freedomhouse per il 2007 ci colloca al 61° posto nel mondo per libertà di stampa; la Germania e gli Stati Uniti sono al 16° posto; l'Inghilterra al 31°; Taiwan al 33°; l'Ungheria al 39°; le Mauritius al 55° e il Sudafrica al 59°) e una gestione del potere quale quella che è sotto gli occhi di tutti portino a una totale indifferenza alla realtà delle cose, stravolgendo il senso di tutto e anche le evidenze fattuali.Si impongono, dunque, alcune considerazioni sulla logica dell’archiviazione sulla base della quale dovremmo chiedere scusa al sen. Mastella.Il decreto può essere letto a questo link (tratto, come ho detto, dal blog del sen. Mastella).Non intendo discuterlo nel merito, perché non conosco gli atti del processo e, dunque, non ho elementi per dire se, nella sostanza, sia corretto o no, in relazione a quegli atti.Tutti abbiamo, invece, elementi per comprendere quanto sia assurdo trarre da quel decreto elementi di giudizio contro De Magistris.Perché la cosa sia comprensibile anche ai “non addetti ai lavori”, è necessario mettere in chiaro alcuni punti che, misteriosamente, sembrano sfuggire agli opinion leader nostrani.1. L’iscrizione di qualcuno nel registro degli indagati è atto a sua garanzia e non contro di lui: l’iscrizione fa sorgere, infatti, in favore dell’iscritto il diritto alle garanzie proprie dell’indagato e fa iniziare a decorrere il termine massimo di durata delle indagini. Questo, peraltro, è quello che ha scritto il C.S.M. nella sentenza contro De Magistris, facendo poi errata applicazione del principio e condannando De Magistris per avere iscritto il sen. avv. Pittelli in un modo che asseritamente non assicurava la certezza della data di iscrizione (in sostanza, lì lo condannano perché asseritamente non iscrive, qui lo vorrebbero condannato perché iscrive).2. L’iscrizione si fa all’inizio delle indagini, prima di cominciarle e per poterle cominciare. Dunque, non ha alcun senso pretendere che all’inizio delle indagini ci siano già le prove che servirebbero per una condanna.3. Il pubblico ministero deve indagare ogni volta che sembra che ci sia un reato e nei confronti di tutti quelli che ne potrebbero essere autori. Per questo tantissime volte, alla fine delle indagini, chiede l’archiviazione. Perché spessissimo l’ipotesi di accusa si rivela infondata. Dunque, l’archiviazione non è sotto alcun profilo una sconfitta del pubblico ministero (tanto più, poi, se al pubblico ministero che ha fatto l'iscrizione il processo è stato tolto l'indomani, impedendogli di coltivare la sua ipotesi d'accusa) e pretendere che il pubblico ministero indaghi nei confronti di qualcuno solo quando ha le prove che lui sia colpevole è un “illogico assoluto”. Si indaga per verificare “se” e non “che” uno è colpevole.4. Ha senso chiedere scusa a qualcuno quando si è fatto nei suoi confronti qualcosa che non si aveva il potere e il dovere di fare: chiedo scusa se ho arrestato una persona senza i gravi indizi di colpevolezza. Non avrebbe alcun senso chiedere scusa a qualcuno perché mi sono permesso di ipotizzare che egli potesse essere autore di un reato e, conseguentemente, l’ho iscritto nel registro degli indagati, perché se questo avesse un senso i pubblici ministero dovrebbero passare la vita a chiedere scusa alle migliaia di persone che vengono iscritte nel registro degli indagati e poi “archiviate”. Il fatto che qualcuno pretenda delle scuse solo perché ci si è permessi di “sospettare di lui” (questo è ciò che dà luogo alla iscrizione di qualcuno nel registro degli indagati) dà la misura di quanto profonda sia la notte della ragione, della Repubblica e della democrazia in Italia oggi.Tutto ciò posto, per capire l’illogicità dei ragionamenti di chi vuole delle scuse, faccio un esempio comprensibile a tutti.Immaginiamo che una signora venga trovata assassinata in casa sua.In questo caso il pubblico ministero si trova dinanzi alla cosiddetta “prova generica” di reato. C’è la prova (c.d. “generica”) che è stato commesso un omicidio, ma non si sa chi l’ha commesso.Una cosa simile c’è in Calabria, dove è evidente che si è abusato e tanto del denaro pubblico, ma non si sa chi lo abbia fatto (e certo il fatto che non si sappia chi lo abbia fatto, posto che i fatti sono lì davanti a tutti, non depone bene per chi dovrebbe accertare queste cose).A un certo punto (nella storiella noir della signora assassinata), una vicina di casa si reca in Procura e dice al P.M.: “Guardi che io il giorno del delitto ho visto il marito della signora uscire di corsa dalla casa dove è stata trovata la morta”.A questo punto il mio giallo si biforca in due ipotesi (un po’ come nel film “Sliding doors”).Nella prima ipotesi, il marito della morta è una persona qualunque, come per esempio Alberto Stasi.In questo caso, il P.M., sentita la vicina di casa, pensa: “Caspita, ma allora l’assassino potrebbe (è solo una ipotesi) anche essere il marito”. E decide di indagare per verificare se questa ipotesi sia fondata o no.Per potere indagare, iscrive il marito nel registro degli indagati e inizia una indagine che può durare poco, se il marito ha un alibi di ferro, o molto se non si trova l’assassino.Dopo avere fatto tutte le indagini possibili, il P.M. tira le sue conclusioni e, se non è risultata provata la colpevolezza del marito, chiede l’archiviazione, mentre se quella è stata provata ne chiede il rinvio a giudizio. In nessuna delle due ipotesi chiede scusa a nessuno.Seconda ipotesi.Il marito della donna uccisa non è “una persona qualunque”, ma un Senatore della Repubblica.Anche in questo caso il P.M.. pensa: “Caspita, ma allora l’assassino potrebbe (è solo una ipotesi) anche essere il marito”. E decide di indagare per verificare se questa ipotesi sia fondata o no.Come nell’altra ipotesi, per potere indagare, iscrive il marito nel registro degli indagati e inizia una indagine che potrebbe durare poco, se il marito ha un alibi di ferro, o molto se non si trova l’assassino.Ma in questo caso la storia ha un altro corso.Interviene la Procura Generale e, in violazione delle leggi in materia (violazione che nessuno sanzionerà), dispone una avocazione definita da autorevole magistrato “impensabile” e toglie l’inchiesta al P.M..Dopo di che chiede l’archiviazione della stessa, dicendo: “Ma uscire di corsa dalla casa del delitto non prova che il senatore sia l’assassino”.Il G.I.P. dice: “Certo, è vero. Queste non sono prove di colpevolezza. Il senatore va archiviato. E non ci si doveva permettere neppure di sospettarlo”.Aggiunge, fra l’altro: «Il tabulato relativo all’utenza in uso al sen. Mastella, acquisito senza l'autorizzazione della Camera di appartenenza, è inutilizzabile». E questa è cosa giuridicamente del tutto opinabile (a mio modesto parere sbagliata, ma si tratta di materia tecnicamente controversa e a sbagliare potrei essere io).E ancora: «Nel merito, comunque, esso conferma soltanto la frequentazione telefonica tra Saladino ed il Senatore già per altre vie emersa, ma inespressiva “di condotte del Mastella ipotizzabili come reati”». Come dire, nel mio raccontino noir: “L’uscita di corsa del marito dalla casa del delitto conferma soltanto la frequentazione della casa propria da parte del marito della morta già per altre vie emersa (è il marito convivente!!), ma inespressiva di condotte del marito ipotizzabili come reato”.Ma certo, si dovrebbe dire in entrambi i casi, quelle circostanze, infatti, secondo la legge e la logica delle cose e del procedimento penale dovevano servire a cominciarla una indagine (come avevano fatto De Magistris nella realtà e il P.M. nella prima versione della mia storiella) e non a chiuderla (come hanno fatto la Procura Generale e il G.I.P. nella seconda versione della mia storiella e nella realtà).Poi, lo stesso G.I.P. forse si rende conto che, in altre occasioni simili, a un pubblico ministero che avesse chiesto l’archiviazione altri G.I.P. l’avrebbero negata, invitandolo a proseguire le indagini per verificare meglio la fondatezza o meno dell’ipotesi di accusa, e, per risolvere questa possibile contraddizione, aggiunge (testualmente dal decreto sul sen. Mastella): «L’analisi dei risultati investigativi acquisiti rende del tutto superfluo l’ulteriore prosieguo».Ma nessuna motivazione di ciò adduce.E ciò stupisce non poco, data la delicatezza e complessità del caso.Ma la Procura Generale e il C.S.M. hanno dato prova negli ultimi mesi di punire l’eccesso di motivazione e non il difetto.A questo punto, urla di indignazione di tutti: “Povero senatore perseguitato. Chiedetegli scusa. Come avete potuto fargli quello che gli avete fatto”.Allora uno si chiede: “Ma che gli hanno fatto”?E la risposta è: si sono permessi di sospettarlo e di decidere di verificare se ciò che appariva era.Evidentemente in Italia oggi è vietato sospettare dei potenti. Anche quando ciò che si vede depone contro di loro.La lezione che viene ai magistrati dal caso De Magistris è: non vi azzardate a farlo più, perché, se lo rifarete, verrete espropriati del fascicolo (che vi verrà tolto prelevandolo in vostra assenza dalla cassaforte del vostro ufficio), verrete condannati e trasferiti in altra città e in altra funzione, verrete diffamati in ogni dove e dovrete, infine, pure chiedere scusa.Decisamente la notte della Repubblica, ma anche della democrazia e della ragione.P.S. – Alcuni a questo punto diranno: “Eh, ma allora, se si va appresso al raccontino di Lima, il povero Mastella non potrà mai prevalere su De Magistris”. Si, è vero, perché il problema che ha un paese democratico non è fare guerre fra senatori e magistrati, consentendo a questo o quello di “prevalere”, ma consentire ai magistrati e prima ancora al popolo di verificare l’onestà anche dei governanti.P.P.S. – Altri a questo punto diranno: “Eh, ma allora chiunque può venire iscritto nel registro degli indagati in qualunque momento sulla base di qualunque anche strampalata ipotesi di accusa”. Premesso che l'ipotesi di De Magistris era assolutamente ragionevole e non strampalata, si, è vero ed è proprio quello che prevede il codice di procedura penale, che pretende che il P.M. iscriva subito ogni sospettato e che sospetti di ogni possibile colpevole. D’altra parte essere iscritti non è cosa in sé dannosa sotto alcun profilo (e non si dica che lo è perché la stampa ci tesse sopra una tela, perché la magistratura che già sconta l’opportunismo servo della stampa non può scontarne anche l’avidità cinica, che la porta a “sbattere [quando le conviene] mostri in prima pagina”) e, soprattutto, succede ogni giorno a migliaia di persone qualsiasi, me compreso, senza che queste trovino cose tipo il Riformista o l'Avvenire ad alzare la voce rivendicando per loro scuse non dovute a nessuno.P.P.P.S. – La cosa peculiare di questo decreto di archiviazione e dell’uso mediatico che ne è stato fatto è che in esso il G.I.P. non si limita a disporre l’archiviazione per infondatezza della notitia criminis, ma afferma, fra l’altro, addirittura (cosa davvero moltissimo insolita) che quella ritenuta tale dal P.M. non era neppure una notitia criminis, così che l’indagato non solo va “archiviato”, ma non andava iscritto (la cosa, se misurata con il metro attuale della Procura Generale della Cassazione, andrebbe qualificata come abnorme, non essendo previsto dalla legge alcun sindacato del G.I.P. sulla iscrizione, ma solo sulla richiesta di archiviazione o di rinvio a giudizio).P.P.P.P.S. – Le dichiarazioni rese al P.M. De Magistris da Giuseppe Tursi Prato l’11 ottobre 2007 le ha pubblicate Panorama a questo indirizzo.

venerdì 11 aprile 2008

L’utopia della verità


di
Giorgio Bongiovanni
e Anna Petrozzi


da AntimafiaDuemila

La traccia dell’agenda rossa e un’altra inchiesta alla ricerca dei mandanti occulti delle stragi. Revisione dei processi, eliminazione dell’ergastolo, benefici carcerari provvedimenti contro i pentiti, abolizione delle leggi sulla confisca dei beni … in due parole: garanzia di sopravvivenza e quindi un nuovo dialogo con lo Stato.

Per queste ragioni Cosa Nostra, nel bienno ‘92-’93, decise di ricorrere al tritolo.

Prima uccidendo, in un unico atroce elenco, nemici e traditori, e poi attaccando direttamente le istituzioni pur di ottenere ciò che le consente di proliferare nei secoli: potere e denaro.

Quindici anni di sentenze e di processi ci hanno spiegato che la Commissione mafiosa presieduta da Riina e Provenzano decifrò il verdetto della Cassazione del 30 gennaio 1992, che li condannava per sempre all’ergastolo, come la definitiva conferma che i vecchi referenti erano saltati ed era quindi necessario e impellente trovarne di nuovi.

Non prima di aver regolato i conti, però.

A dare inizio alle tragiche danze l’assassinio di Salvo Lima, il 12 marzo. Il democristiano stava uscendo dalla sua casa di Mondello quando una raffica di proiettili lo freddò sul marciapiede.

Il lenzuolo bianco adagiato sul suo corpo inerme era un eloquente epitaffio con impresse invisibili ma assai evidenti le stesse parole che il politico pronunciò davanti al cadavere di Pier Santi Mattarella: «quando si fanno dei patti, bisogna rispettarli».

Per mesi Cosa Nostra aveva sollecitato il suo rispettabile interlocutore ad interessarsi perché il mastodontico lavoro del pool di Falcone e Borsellino non si chiudesse in gloria con la conferma della Cassazione.

Da un po’ di tempo però gli ordini dall’alto avevano imboccato una strada diversa. Falcone era da un annetto al Ministero e in tutta probabilità si era pensato di sfruttare il suo geniale lavoro per “rifarsi una verginità”, illudendosi anche di poter tagliare fuori dai giochi Cosa Nostra una volta per sempre.

Andreotti per esempio che, come dice la sentenza di Cassazione a suo carico, fino agli anni Ottanta ebbe rapporti con i capi mafia, aveva forse visto nel giudice l’occasione che aspettava per rivalersi della prepotenza di Bontade e del triumvirato che, così come aveva minacciato, fece uccidere il presidente Mattarella poiché questi stava mettendo in discussione l’egemonia mafiosa su appalti e affari nella regione.

L’omicidio Lima, ci dicono gli atti giudiziari, era un messaggio diretto all’allora presidente del Consiglio che aspirava in quel frangente alla presidenza della Repubblica, obiettivo che quel delitto, a conti fatti, non gli consentì di conseguire.

Il nemico numero uno da eliminare invece era senza alcun dubbio Giovanni Falcone. Per il suo incredibile intuito, la tenacia, l’abnegazione, per il grande consenso di cui godeva all’estero, negli Stati Uniti, dove, grazie alla collaborazione con Rudolph Giuliani, e con la Dea erano stati assestati colpi tremendi alla Cosa nostra italo-americana, e, naturalmente, per il maxi processo.

Se l’intento era dichiarare guerra allo Stato non potevano farlo in modo migliore: attaccando il suo elemento più rappresentativo.

Non sono casuali la scelta del luogo: la Sicilia, visto che ucciderlo a Roma sarebbe stato anche più facile, e le modalità spettacolari con cui venne fatta saltare in aria l’autostrada che porta a Palermo, all’altezza dello svincolo di Capaci.

Una dimostrazione di potenza, un atto eversivo che contiene in se l’immediata certezza che quella morte non era stata pianificata solo da Cosa Nostra.

Il giudice stesso aveva intravisto, commentando il fallito attentato all’Addaura, al quale scampò, lo zampino di “menti raffinatissime” ed era sicuro fosse avvenuta quella “saldatura di interessi” che porterà alla sua morte, a quella di sua moglie Francesca Morvillo e dei tre agenti, uomini dello Stato, che avevano l’incarico di proteggerlo: Rocco Di Cillo, Vincenzo Montinaro e Vito Schifani.

Non solo Cosa Nostra, quindi.

La stessa convinzione che il giudice Borsellino aveva confidato alla moglie Agnese: “Forse saranno i mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”.


L’agenda scomparsa

«Ho capito tutto», andava ripetendo negli ultimi giorni di vita Paolo Borsellino.

Aveva capito chi c’era e cosa si muoveva dietro e a fianco di Cosa Nostra, sapeva anche, dalle testimonianze dei collaboratori di giustizia, tra cui quella di Gaspare Mutolo, che vi erano uomini delle Isituzioni infedeli e che le indagini sulla morte del suo amico lo avrebbero portato anche fuori dalla Sicilia dove Cosa Nostra aveva i suoi complici occulti.

Tutto ciò che aveva compreso e intuito e che intendeva riferire all’autorità giudiziaria, lo aveva minuziosamente annotato nella sua agenda personale.

Un’agenda rossa, spiegano la moglie e i suoi collaboratori più stretti, da cui non si separava mai.

L’aveva con sé mentre si trovava a Salerno; lo dice il tenente Carmelo Canale che divideva la stanza d’albergo con lui. Racconta di essersi svegliato molto presto e di aver trovato il giudice già intento ad appuntare dati e pensieri.

«Cosa fa?» gli aveva chiesto scherzando «vuol fare il pentito pure lei?» …

«Carmelo», gli aveva risposto gelido, «per me è finito il tempo di parlare. Sono successi troppi fatti in questi mesi, anche io ho le mie cose da scrivere. E qua dentro ce ne è anche per lei».

E l’aveva con sé anche quell’ultima mattina, domenica 19 luglio 1992, nella sua casa di Villagrazia.

La moglie ne è certa, l’aveva visto riporla nella valigetta assieme alle altre carte e al suo costume da bagno ancora umido.

Ma nell’inferno di via D’Amelio, tra fumo, fiamme, case sventrate e brandelli di resti umani, l’agenda non c’era più.

La borsa da lavoro del giudice era ancora appoggiata sul sedile posteriore dove l’aveva lasciata prima di scendere e citofonare alla madre che, quel giorno, avrebbe dovuto portare dal cardiologo.

Era leggermente annerita, aperta e conteneva tutto, anche il costume, ma l’agenda rossa del giudice no. Sparita.

Un mistero rimasto intatto e inesplorato, almeno fino a non molto tempo fa quando dallo studio di un fotografo, Franco Lannino, spunta un’immagine a colori che ritrae un uomo con in mano la borsa del giudice.

Da allora sono ripartite nuove indagini già messe in crisi tra dichiarazioni contraddittorie e quelli che sembrano essere veri e propri tentativi di depistaggio.

L’agente individuato nella foto è l’allora capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli che rispondendo agli inquirenti ha riferito, in un primo momento, di non averla mai aperta e di averla consegnata a due magistrati: il dottor Teresi, oggi sostituto procuratore generale e a Giuseppe Ayala, oggi parlamentare.

Il primo ha negato decisamente l’accaduto ritenendolo alquanto strano visto che conosceva bene Arcangioli, il secondo invece, giunto quasi immediatamente sul posto, (abitava infatti a 500 metri), ricorda di averla notata lui stesso, la cartella di cuoio, e di averla «materialmente presa o indicata e comunque affidata ad un carabiniere in divisa».

Versioni diverse ognuna delle quali rimasta intatta, tranne per Arcangioli che ha rincarato sostenendo di aver aperto la borsa insieme ad Ayala e di aver constatato assieme che l’agenda non c’era.

Una versione che il politico ha smentito con forza durante un confronto abbastanza acceso con l’ufficiale.

A confermare la sua ricostruzione dei fatti il giornalista Felice Cavallaro: «Ayala la affidò a un esponente delle forze dell’ordine in borghese e ad un ufficiale dei carabinieri in divisa senza aprirla, io non ne seppi più nulla».

Dov’è questa agenda? Esisterà ancora o sarà stata distrutta? E se è nelle mani di qualcuno, è strumento di ricatto?

Lo stesso potrebbe dirsi per i diari di Falcone, anch’essi inghiottiti nel nulla come probabilmente alcuni dei file trafugati dalle sue agende elettoniche e dai computer.

Cosa cercavano e chi?

Si parla sempre in questi casi di servizi segreti, o servizi deviati che dir si voglia, misteriose figure agli ordini di ancor più ignoti che agiscono per far sparire, depistare, ingannare.

Tracce oscure sono più che evidenti anche nella fase esecutiva della strage di via D’Amelio, della quale, per assurdo, sono note quasi tutte le dinamiche tranne chi premette quel pulsante e da dove.

Il lavoro estenuante degli inquirenti, scrivono i giudici a conclusione del processo stralcio chiamato Borsellino bis, sembra essersi scontrato contro un altro ennesimo muro di gomma, un’insormontabile barriera oltre la quale sembra non sia possibile andare.

Presenze esterne a Cosa Nostra, mandanti convergenti con i mafiosi di cui abbiamo solo qualche indizio.

Anni di indagini che hanno coinvolto anche personaggi di primo piano dello scenario politico come Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.

Una pista, come altre, finita nell’oblio dell’archiviazione nonostante siano stati riconosciuti “ripetuti e non casuali contatti” tra Fininvest e Cosa Nostra.

Sono rimaste aperte a tutt’oggi questa inchiesta legata all’agenda rossa (cui è dedicato l’ottimo libro di Peppino Lo Bianco e Sandra Rizzo dal titolo omonimo di cui pubblichiamo a seguire alcuni passaggi) e uno stralcio di indagine che da Palermo è passato, proprio in questi giorni, a Caltanissetta.


Bombe eversive

Non si potrà comunque giungere ad alcuna verità sulle stragi palermitane se non le si guarda anche alla luce delle cosiddette “bombe in continente”, gli attentati cioè avvenuti nella primavera-estate dell’anno successivo: il 1993.

La furia omicida di Cosa Nostra cerca dapprima di rispettare il suo elenco di morte attentando alla vita del questore Germanà a Trapani, del giornalista Maurizio Costanzo e del giudice Piero Grasso a Roma, ma poi si concentra su obiettivi diversi che hanno, di conseguenza, finalità diverse.

Cosa nostra ad un tratto comprende che forse sarebbe più vantaggioso colpire lo Stato nel suo patrimonio, in una delle sue risorse più importanti: il turismo.

Il 27 maggio si colpisce a Firenze. In via dei Georgofili, proprio di fronte al museo degli Uffizi. Due mesi dopo, nella notte del 27 luglio, a Milano, in via dei Giardini.

Quasi contemporaneamente, a distanza di poche ore, a Roma, altre due bombe: una distruggerà il porticato di San Giorgio al Velabro, l’altra danneggerà la celebre basilica di San Giovanni in Laterano.

Non basta. Il programma di guerra prevedeva, tra le altre cose, anche di abbattere la torre di Pisa e di cospargere le spiagge romagnole di siringhe infette. Un piano che, se portato a temine, avrebbe determinato un vero e proprio collasso per la nostra economia.

Le vittime innocenti? Danno collaterale. Così chiamano i civili caduti durante i bombardamenti i signori della guerra. Guerra sì, perché di questo si trattò.

A Milano e Firenze in via dei Georgofili i danni collaterali avevano un nome e un cognome: Fabrizio Nencioni di 30 anni e la sua famiglia, la moglie Angela di 36 anni e le figlie Nadia 9 anni e Caterina di appena 50 giorni, Davide Capolicchio 22 anni e altri 48 feriti, il vigile urbano Alessandro Ferrari, i vigili del fuoco Stefano Piperno, Sergio Passotto, Carlo La Catena e un cittadino marocchino Driss Moussafir trovato agonizzante nei giardini pubblici davanti alla villa reale, dall’altra parte della strada e altri sei feriti.

Ma cosa spinge i mafiosi a scatenare una tale offensiva e da dove viene questa idea dei monumenti?

Giovanni Brusca, il primo dei grandi collaboratori di giustizia a riferire delle stragi, racconta di essere stato in contatto con un tale Bellini tramite Nino Gioè uomo d’onore a lui sottoposto che lo aveva conosciuto durante un periodo di detenzione.

Un giorno questo misterioso soggetto, collegato sempre in modo molto fumoso, ad altrettanto fumosi servizi deviati, spiega al Gioè: «Se tu vai a eliminare una persona, se ne leva una e ne metti un’altra. Se tu vai a eliminare un’opera d’arte, un fatto storico, non è che lo puoi andare a ricostruire, quindi lo Stato ci sta molto attento, quindi l’interesse è molto più che per la persona fisica».

E lo stesso tipo di proposta rivolge anche al Maresciallo Tempesta del Nucleo Tutela Patrimonio Artistico dell’Arma dei Carabinieri con il quale aveva una sorta di accordo per recuperare opere d’arte trafugate. Sfruttando il suo contatto con Gioè, il Bellini, che mercanteggiava la sua posizione giudiziaria, disse di essere in grado di reperire oggetti di ancor maggior valore, grazie alle sue entrature in Cosa Nostra e che in cambio portava la richiesta da parte di uomini d’onore di concedere benefici carcerari a boss detenuti del calibro di Bernardo Brusca.

Una richiesta considerata troppo eccessiva dalle istituzioni così come quelle avanzate da Riina nel famoso papello che riguardavano tutte quelle modifiche di tipo legislativo che servivano a Cosa Nostra per ritornare a coabitare pacificamente con lo Stato.

A distanza di quattro anni dalle stragi, nel 1997, veniamo a scoprire, durante un interrogatorio, che due uomini delle Istituzioni, l’allora colonnello dei carabinieri Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno stavano dialogando con i mafiosi, attraverso l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino.

Volevano la testa di Riina e degli altri capi; in cambio erano disposti a cedere solo un trattamento di favore ai familiari.

In un primo momento il vecchio sindaco non accetta di fare da intermediario considerando la proposta troppo pericolosa ma poi si fa consegnare una piantina della città per indicare la zona in cui potrebbe nascondersi il latitante.

A detta dei due militari questa ennesima trattativa sarebbe finita in un nulla di fatto quando Ciancimino è rientrato in carcere per scontare una pena residua. Sta di fatto che dopo pochissimo tempo, il 15 gennaio 1993, Riina viene catturato a pochi metri dalla sua abitazione, in via Bernini, nel centro di Palermo.

Per conto di chi stava trattando Vito Ciancimino?

Molti anni più tardi, nel 2001, viene catturato Nino Giuffré, braccio destro di Provenzano che, dopo un paio di mesi di detenzione, decide di collaborare con la giustizia.

Le sue dichiarazioni sono importantissime e racchiudono nel suo parlare un po’ criptico chiavi di lettura fondamentali.

Innanzitutto specifica che sebbene entrambe le stragi siano state volute sia da Riina che da Provenzano, la strage di Capaci fu organizzata da Riina mentre quella di via d’Amelio, compresa quell’anomala accelerazione con cui fu compiuta, da Provenzano.

Il quale, in merito a Ciancimino, gli rivelò che «era andato in missione dalle forze dell’ordine per sistemare la situazione all’interno di Cosa Nostra che in quel momento era delicata».

Le correnti che vengono a formarsi all’interno dell’organizzazione spingono in più direzioni pur di riaffermare quella legittimazione che Cosa Nostra si è meritata nel corso dei secoli a partire dalla strage di Portella della Ginestra.

Non intende cedere e insiste secondo lo stile dei corleonesi.

Scoppiano le bombe in continente e si prepara un altro grosso attentato a Roma, allo stadio Olimpico.

Obiettivo: ancora lo Stato, decine di carabinieri in servizio.

Grazie a Dio, per un guasto tecnico l’ordigno non esplode. E non ne esploderanno più.

Da quel momento in poi cessa il dialogo delle bombe. Perché?

E’ l’ultima delle tante domande rimaste senza risposta.

Chi ha voluto le stragi? Che attinenza hanno questi atti eversivi con il passaggio dalla prima alla seconda repubblica?

Perché il covo di Riina è rimasto incustodito abbastanza per permettere ai mafiosi di ripulirlo?

Che fine hanno fatto tutte quelle trattative in corso?

Giuffré, Cancemi e Brusca, dai loro tre distinti ma convergenti punti di vista, forniscono diversi pezzi del puzzle e ci spiegano che se inizialmente la frangia più estremista di Cosa Nostra capeggiata in particolare da Leoluca Bagarella aveva pensato di costituire un partito proprio in modo da non incorrere più nei tradimenti dei politici, aveva finito poi con il ricredersi.

Infatti sia Provenzano sia i Graviano, che “si facevano gli affari loro a Milano”, li avevano convinti a lasciar perdere perché avevano trovato la situazione migliore per poter ottenere quanto era nelle loro necessità.

«Con la discesa in campo di Forza Italia», dice Giuffré, Provenzano compie un atto insolito, si espone in prima persona e garantisce la ripresa di Cosa Nostra.

«In 5, 7 anni» aveva detto il capo mafioso al rappresentate della famiglia di Caltanissetta Luigi Ilardo (confidente del colonnello Riccio e per questo poi ucciso a Catania nel 1996), «tutto sarà sistemato. Occorre solo avere pazienza e non fare rumore».

Il silenzio delle bombe, insomma, in cambio di quelle riforme giudiziarie così agognate. Una specie di tentativo di riconciliazione.

E’ storia che Cosa Nostra non abbia nessun colore politico, né che parteggi per una fazione precisa, si sa invece, e molto bene, che si accorda, sposa e favorisce chiunque abbia in mano il potere e adotti una politica di garantismo esasperato dalla quale possa trarre vantaggi.


Complicità di Stato

Sono passati 15 anni da quei giorni terribili.
All’indomani delle stragi il governo, sospinto dall’indignazione collettiva popolare, approva alcuni provvedimenti fortemente restrittivi contro i boss mafiosi, come l’ormai noto 41bis, il cosiddetto carcere duro.

Nell’isolamento più rigido alcuni mafiosi cedono e chiedono di collaborare con la giustizia, di fronte allo Stato che fa sul serio e impone ai criminali di recidere i contatti con l’esterno altri pensano che sia davvero giunto l’epilogo di Cosa Nostra.

Questo però solo fino al 1996. Poi la tensione si allenta di nuovo.

Vengono chiuse le carceri speciali a Pianosa e all’Asinara.

Il 41 bis si svuota lentamente; per un soffio, con l’introduzione del giusto processo, non viene abolito l’ergastolo; il sequestro, la confisca e la destinazione dei beni mafiosi vengono regolati da un meccanismo talmente farraginoso da richiedere all’incirca una decina d’anni, il tempo necessario per far deteriorare il bene.

Si è pensato persino di metterli all’asta cosicché li possono comprare di nuovo i mafiosi attraverso i loro prestanome.

La legge sui collaboratori di giustizia si è dimostrata così poco incentivante da aver determinato un crollo totale delle collaborazioni.

Oggi, dopo che i magistrati erano riusciti ad aggirare questo pesantissimo danno grazie alle intercettazioni, si pensa di limitarle e di renderle il più velocemente possibile inutilizzabili.

E’ tornata poi a farsi largo l’ipotesi di abolire l’ergastolo e aleggia minacciosa nell’aria la proposta di revisione dei processi.

E questa non è che una rapida sintesi.

Questi provvedimenti non sono stati presi solo durante i governi di Centro Destra, ma in una sostanziale continuità di intenti, chiunque fosse al potere.

Se dovessero essere approvate definitivamente anche queste due ultime riforme Provenzano passerà alla storia di Cosa Nostra come l’eroe che la salvò rimettendola al centro degli equilibri di potere, dove è sempre stata.

Garantita al meglio possibile, considerati tutti i martiri e gli assassini lasciati sul campo.

Lui è stato catturato e già si profila una nuova epoca di Cosa Nostra. Che muta al mutare anche degli equilibri ad essa esterni.

Alla Cosa Nostra di Riina è succeduta quella di Provenzano così come alla Prima Repubblica ne è succeduta una Seconda. Cambi di forme, ma non di sostanza.

Sia Cosa Nostra che la politica del nostro paese si apprestano a mutare volto un’altra volta, ma nulla cambierà veramente fino a quando non vi saranno politici e uomini dello Stato di ben altra razza che cominceranno a costruire il nuovo a partire dalla verità sulle stragi, su tutte le stragi, su quel sangue in cui affonda le radici questa presunta seconda repubblica, come ha giustamente sostenuto il pm Antonio Ingroia.

I limiti del processo penale non hanno consentito di accertarla, ma forse è anche giusto così.

Dovrebbe essere la politica ad assumersi questa responsabilità con una commissione apposita che abbia il coraggio di arrivare fino in fondo.

Altrimenti saremo sempre un paese suddito di poteri ibridi che vorremmo far passare per una democrazia che invece è rimasta rattrappita nella sua potenzialità.

Più scriviamo e più ci appare quasi ridicolo e ingenuo pensare di chiedere allo Stato di processare se stesso.

Leggendo e rileggendo le carte, le sentenze, le testimonianze e le dichiarazioni dei collaboratori emerge quel quadro inquietante dei mandanti esterni e degli oscuri connubi fatti di massoneria, servizi deviati, alta finanza e centri di potere, persino religioso di cui tutti ormai hanno scritto e detto.

Ma a nostro avviso, mai si sarebbero potute verificare stragi di tale entità, da Portella in poi, se non ci fossero stati uomini di Stato, non di quello deviato, uomini di cui una buona parte è ancora al comando che sono stati complici di eventi eversivi che hanno prodotto radicali cambiamenti nel Paese, a livello politico, finanziario, bancario e persino monetario.

Ambiti gestiti e amministrati dall’establishment che cosituisce il nostro Stato.

Non è prassi nuova o esclusiva dell’Italia, pensiamo allo scenario in cui si produsse ad esempio l’omicidio del presidente John Fitzgerald Kennedy e quali e quanti cambiamenti provocò negli equilibri interni ed esterni alla nazione.

Tutto ciò è molto lontano dalla nostra idea di Stato, da quella dei tanti cittadini onesti che conservano l’amore per la Costituzione Italiana che garantisce diritti, doveri, opportunità e libertà in equa misura.

E non è lo Stato che servirono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che torniamo anche quest’anno a commemorare e nei cui confronti abbiamo il debito morale di perseverare nelle idee e nelle battaglie.

sabato 5 aprile 2008

Ecco i monaci che hanno causato le violenze a Lhasa!!!



Ecco un´immagine scattata appena prima degli scontri di Lhasa:guardate un po´ chi sono i "monaci" autori delle famose violenze!



'Pechino orchestrava la rivolta nel Tibet'
Canada Free Press [Venerdi, 21 Marzo, 2008 10:20] spie britanniche confermano la denuncia del Dalai Lama sulle violenze inscenate

di Gordon Thomas

Londra, 20 Marzo - Britain's GCHQ, l´agenzia governativa delle comunicazioni che controlla elettronicamente mezzo mondo dallo spazio, ha confermato la rivendicazione del Dalai Lama che agenti dell´Esercito Popolare di Liberazione, l´EPL, travestiti da monaci, hanno innescato le rivolte che hanno lasciato dietro di sé centinaia di morti e feriti tibetani.
Gli analisti della GCHQ ritengono che la decisione fosse deliberatamente calcolata dalla leadership di Pechino per fornire una scusa per schiacciare il malcontento che ribolliva nella regione, che sta già attirando la sgradita attenzione del mondo proprio durante la corsa alle Olimpiadi di questa estate.

Per settimane c´è stato un crescente astio a Lhasa, la capitale del Tibet, contro azioni minori compiute dalle autorità cinesi.

I monaci hanno guidato sempre più azioni di disobbedienza civile, chiedendo il diritto di compiere il tradizionale rito d´incensi bruciati. Alle loro richieste si unisce il grido per il ritorno del Dalai Lama, il 14esimo a tenere la massima carica spirituale.

Impegnato ad insegnare i punti fermi della sua autorità morale-pace e compassione-il Dalai Lama aveva 14 anni quando l´Esercito Popolare di Liberazione invase il Tibet nel 1950 e fu costretto a fuggire in India da dove ha condotto senza sosta una campagna contro la durezza del dominio Cinese.

Ma i critici hanno obiettato sulla sua attrazione per le star dei film. Il magnete dei giornali Rupert Murdoch l´ha definito: "un monaco molto politico con scarpe Gucci"


Scoprendo che i suoi sostenitori dentro il Tibet e la Cina sarebbero divenuti ancora più attivi nei mesi precedenti le Olimpiadi di quest´estate, I funzionari della British Intelligence a Pechino hanno compreso che il regime avrebbe cercato una scusa per muoversi e schiacciare l´attuale malcontento.


Questo timore è stato pubblicamente espresso dal Dalai Lama. I satelliti del GCHQ, geo-posizionati nello spazio, erano incaricati di monitorare da vicino la situazione.

Il complesso a forma di ciambella, vicino all´ippodromo di Celtenham, è situato nel piacevole Cotswords ad ovest dell´Inghilterra. Con 700 dipendenti, include i più grandi esperti elettronici e analisti del mondo. Tra di loro si parla più di 150 lingue. A loro disposizione ci sono 10.000 computers, molti dei quali sono stati appositamente costruiti per il loro lavoro.


L´immagine che hanno scaricato dai satelliti ha fornito la conferma che i Cinesi hanno usato agenti provocatori per iniziare le rivolte, cosa che ha dato all´EPL la scusa per muovere su Lhasa e uccidere e ferire durante l´ultima settimana.

Ciò che il regime di Pechino non si aspettava era che le rivolte si sarebbero diffuse, non solo attraverso il Tibet, ma anche nelle province del Sichuan, Quighai e Gansu, trasformando una larga parte della Cina occidentale in una zona di battaglia.

Il Dalai Lama lo ha chiamato "genocidio culturale" e si è offerto di dare le dimissioni come capo delle proteste contro il governo cinese al fine di portare la pace. L´attuale agitazione è cominciata il 10 Marzo, segnando l´anniversario della rivolta del 1959 contro il regime cinese.


Comunque, I suoi seguaci non stanno ascoltando il suo "messaggio di compassone".

Molti di loro sono giovani, disoccupati ed espropriati di ogni diritto e rifiutano la sua filosofia della non-violenza, credendo che la sola speranza per un cambiamento sia l´azione radicale che stanno portando avanti.

Per Pechino, l´urgente bisogno di trovare una soluzione alla rivolta sta diventando un crescente imbarazzo.

Tra 2 settimane, le celebrazioni nazionali per i Giochi Olimpici inizieranno con la tradizionale accensione della torcia. E´ previsto che i tedofori passino per il Tibet. Ma la torcia potrebbe ritrovarsi ad essere portata dai corridori in mezzo a palazzi e templi in fiamme.

Un segno di questa urgenza è che il primo ministro Cinese ha ora affermato che è pronto ad aprire un dialogo col Dalai Lama. Poco prima di questo annuncio, il primo ministro britannico Gordon Brown ha dichiarato che avrebbe incontrato il Dalai lama durante la sua visita a Londra il prossimo mese. Questa è la prima volta che entrambi I leaders hanno proposto di incontrare il Dalai Lama.



Pechino 2008: Un mondo, Un sogno - Tibet libero

Lhadon Tethong

(tradotto da ery)

mercoledì 2 aprile 2008

SULL'AMORE




Allora Almitra disse: parlaci dell'Amore. E lui sollevò la stessa e scrutò il popolo e su di esso calò una grande quiete. E con voce ferma disse: Quando l' amore vi chiama, seguitelo. Anche se le sue vie sono dure e scoscese. e quando le sue ali vi avvolgeranno, affidatevi a lui. Anche se la sua lama, nascosta tra le piume vi può ferire. E quando vi parla, abbiate fede in lui, Anche se la sua voce può distruggere i vostri sogni come il vento del nord devasta il giardino. Poiché l'amore come vi incorona così vi crocefigge. E come vi fa fiorire così vi reciderà. Come sale alla vostra sommità e accarezza i più teneri rami che fremono al sole, Così scenderà alle vostre radici e le scuoterà fin dove si avvinghiano alla terra. Come covoni di grano vi accoglie in sé. Vi batte finché non sarete spogli. Vi staccia per liberarvi dai gusci. Vi macina per farvi neve. Vi lavora come pasta fin quando non siate cedevoli. E vi affida alla sua sacra fiamma perché siate il pane sacro della mensa di Dio. Tutto questo compie in voi l'amore, affinché possiate conoscere i segreti del vostro cuore e in questa conoscenza farvi frammento del cuore della vita. Ma se per paura cercherete nell'amore unicamente la pace e il piacere, Allora meglio sarà per voi coprire la vostra nudità e uscire dall'aia dell'amore, Nel mondo senza stagioni, dove riderete ma non tutto il vostro riso e piangerete, ma non tutte le vostre lacrime. L'amore non da nulla fuorché sé stesso e non attinge che da se stesso. L'amore non possiede né vorrebbe essere posseduto; Poiché l'amore basta all'amore. Quando amate non dovreste dire:" Ho Dio nel cuore ", ma piuttosto, " Io sono nel cuore di Dio ". E non crediate di guidare l'amore, perché se vi ritiene degni è lui che vi guida. L'amore non vuole che compiersi. Ma se amate e se è inevitabile che abbiate desideri, i vostri desideri hanno da essere questi: Dissolversi e imitare lo scorrere del ruscello che canta la sua melodia nella notte. Conoscere la pena di troppa tenerezza. Essere trafitti dalla vostra stessa comprensione d'amore, E sanguinare condiscendenti e gioiosi. Destarsi all'alba con cuore alato e rendere grazie per un altro giorno d'amore; Riposare nell'ora del meriggio e meditare sull'estasi d'amore; Grati, rincasare la sera; E addormentarsi con una preghiera in cuore per l'amato e un canto di lode sulle labbra

KHALIL JIBRAN