
Sono venticinque anni che la Cina ha aperto le porte ai mercati mondiali. Da  allora i leader del paese hanno tenuto deliberatamente basso il tenore di vita  dei loro cittadini e hanno sostenuto quello degli statunitensi. Si spiega così  l’enorme eccedenza della bilancia commerciale cinese - più di 1.400 miliardi di  dollari che crescono al ritmo di un miliardo al giorno - investita soprattutto  in titoli del tesoro statunitense. Di fatto, negli ultimi dieci anni ogni  abitante della (ricca) America ha preso in prestito circa quattromila dollari da  un cittadino della (povera) Repubblica Popolare Cinese.
Qualunque economista può dire che gli americani vivono al di sopra delle loro  possibilità. È quello che succede quando il consumo totale di un paese supera la  sua produzione complessiva, come nel caso degli Stati Uniti. Gli economisti  sottolineano che, malgrado le scintillanti metropoli e i nuovi miliardari, i  cinesi vivono molto peggio di quanto potrebbero. E questo succede quando un  paese consuma solo la metà di quello che produce, come fa la Cina.
Nessuno dei due governi vuole richiamare l’attenzione su questo tacito  accordo, che ha fatto molto comodo a entrambe le parti. In Cina ha aiutato il  regime a orientare lo sviluppo come ha voluto. Per l’America ha significato iPod  meno costosi, tassi di interesse più bassi, mutui a buon mercato, imposte meno  alte. Ma cominciano a farsi sentire le tensioni politiche nei due paesi, unite  alle dimensioni enormi e in continuo aumento dello squilibrio.
Perché la Cina ha tanti soldi
II valore del dollaro è innaturalmente alto da parecchi anni, in gran parte a  causa del tacito patto con la Cina. Per lo stesso motivo, il tenore di vita  cinese, anche se in rapida crescita, è rimasto innaturalmente basso. Questa  situazione probabilmente non durerà. Per capire perché, vediamo com’è nato  questo strano equilibrio di potere e come funziona. Nel 1996 la Cina aveva già  risparmiato i suoi primi cento miliardi di dollari in valuta estera, soprattutto  dollari statunitensi. La Cina considera queste riserve un segreto di stato,  perciò tutte le cifre sono 1 frutto di analisi di esperti esterni). Secondo  Edwin Truman, del Peterson institute for international economics di Washington,  nel 2001 la cifra era raddoppiata arrivando a duecento miliardi di dollari. Da  allora ha superato i mille miliardi di dollari, e oggi le riserve estere della  Cina sono le più grandi del mondo. Secondo le ultime analisi di Brad Setser, un  ex economista del dipartimento del tesoro che ora collabora con il Council on  foreign relations, i beni della Cina in dollari statunitensi probabilmente  costituiscono il 70 per cento delle sue riserve estere, mentre l’altro 30 per  cento è soprattutto in euro più qualche yen.
Gli americani si chiedono se sia giusto contare così sul denaro controllato  da un governo straniero. Il dibattito è senza dubbio molto pertinente perché  l’America non è mai stata così indebitata con un solo paese. Nel frattempo anche  i cinesi si chiedono se questo accordo abbia senso per loro. Le autorità di  Pechino sanno che i loro acquisti di azioni sostengono i fondi pensione  statunitensi e che la loro presenza sul mercato monetario mantiene bassi i tassi  d’interesse americani, proprio come fanno i loro acquisti di obbligazioni. E in  più permettono a Washington di spendere senza alzare le tasse. “tutto questo  sembra quanto meno strano”, mi ha detto l’anno scorso a Shanghai Lawrence  Summers, ex segretario del tesoro e rettore di Harvard. Si riferiva al fatto che  un paese con tante necessità ancora da soddisfare permetta a “mille miliardi di  dollari di spostarsi da un paese giovane e dinamico a uno maturo, vecchio e  ricco”.
È più che strano. Alcuni cinesi sono ricchi, ma alla Cina manca ancora molto  per poter essere definita completamente sviluppata. Shanghai ha quasi lo stesso  clima di Washington, ma le sue scuole pubbliche sono senza riscaldamento  (entrate in una classe quando è freddo e vedrete quaranta bambini, tutti con il  giubbotto invernale e il respiro che forma nuvolette nell’aria). Pechino  somiglia più a Boston. Nelle notti invernali migliaia di persone si ammassano  lungo i marciapiedi e aspettano autobus disperatamente sovraffollati, che poi si  bloccano per ore nel traffico. E queste sono le città-vetrina. Nella provincia  rurale di Gansu ho visto scuole dove 18 ragazzine delle medie dividono la stessa  stanza dormendo fianco a fianco come sardine.
Scuole moderne, parchi,  migliore assistenza sanitaria, aria e acqua più pulite, sistemi fognali più  efficienti: in Cina manca qualunque cosa non sia collegata al settore delle  esportazioni. Il reddito medio degli operai di una grande fabbrica è di circa  160 dollari al mese, nelle campagne è solo una piccola frazione di questa cifra.  La maggior parte della popolazione in Cina pensa che le sue condizioni stiano  migliorando, ma da un punto di partenza molto basso.
E allora perché la Cina spedisce i suoi soldi negli Stati Uniti? Un  economista lo spiegherebbe dicendo che in Cina i risparmi sono i più alti del  mondo. Può sembrare meraviglioso, ma quando si arriva agli estremi - come in  Cina - questo indica un’economia fuori sintonia con il resto del mondo e un  governo che mantiene i livelli di vita della sua popolazione volutamente più  bassi del dovuto.
Per fare un confronto, il tasso di risparmio dell’India è di circa il 25 per  cento: significa che la popolazione indiana consuma il 75 per cento di quanto  produce collettivamente (il tasso di risparmio è la quota del reddito nazionale  esportata o risparmiata e investita per essere consumata in futuro, cioè è  quello che il popolo produce ma non usa). Recentemente gli Stati Uniti hanno  registrato più volte un tasso negativo. Quindi il paese consuma attraverso le  importazioni più di quanto produce.
Il tasso di risparmio della Cina è uno stupefacente 50 per cento, un dato  forse senza precedenti per un paese in tempo di pace. Questo non significa che  la famiglia media risparmia metà dei suoi guadagni, anche se il tasso di  risparmio personale nel paese è molto alto. Infatti, quasi tutto il reddito  nazionale è “risparmiato” in modo quasi invisibile e conservato sotto forma di  riserve estere. Finora, la maggior parte dei cinesi l’ha tollerato perché  l’economia è cresciuta così in fretta che perfino un livello di consumo frenato  anno dopo anno ha reso la gente più ricca.
Il viaggio di un dollaro
Però, dire che la Cina ha un alto tasso di risparmio descrive la situazione  senza spiegarla. Perché il Partito comunista cinese dovrebbe consentire una  politica che toglie tanta ricchezza al paese per darla agli Stati Uniti? E  perché la Cina dovrebbe essere contenta di avere tante riserve in dollari  sapendo che il dollaro continuerà a perdere valore contro il renminbi? E per  quanto tempo le persone sopporteranno di essere private di gran parte dei loro  guadagni, quando ne hanno bisogno? Quella di far stringere la cinghia alle  persone e al tempo stesso di offrire denaro a basso costo a chi deve comprarsi  una casa in America non è stata una scelta deliberata di Pechino. Però è la  conseguenza di alcune scelte deliberate, due in particolare. Entrambe nascono  dai controlli del governo su un’economia che per altri versi è molto aperta.
Per capire il meccanismo proviamo a seguire un dollaro americano nel suo  viaggio dalle mani di un consumatore statunitense a una fattoria in Cina, e poi  di nuovo negli Stati Uniti per l’asta dei buoni del tesoro.
Avete comprato  uno spazzolino elettrico di marca statunitense che costa 30 dollari in un  negozio negli Stati Uniti.
Probabilmente è stato prodotto da una fabbrica in Cina. La maggior parte di  quei trenta dollari resta al distributore e al produttore, cioè negli Stati  Uniti. Nella fabbrica cinese tornano circa tre dollari, la cifra media per  questi prodotti.
Quando la fabbrica ha fatto la sua prima offerta per l’appalto, ha dichiarato  il prezzo in dollari: tanti milioni di spazzolini a tanti dollari ciascuno. Ma  il produttore cinese non può usare i dollari direttamente. Ha bisogno di  renminbi per pagare il salario agli operai (1.200 renminbi, 160 dollari), per  comprare rifornimenti da altre fabbriche cinesi, per pagare le tasse. Perciò  porta i dollari nella banca locale. Dopo aver presentato le ricevute o le bolle  di consegna per dimostrare di aver guadagnato i dollari con un vero commercio e  non con una speculazione, la fabbrica li cambia in renminbi.
Qui arriva il primo controllo. In altri grandi paesi, le banche possono  decidere da sole cosa fare dei dollari che incassano. Cambiarli in euro o in  yen; investirli direttamente in America; concedere prestiti in dollari:  qualunque cosa che a loro giudizio possa garantire il ritorno più alto. Le  banche cinesi, invece, non possono fare niente di tutto questo. Devono trattare  i dollari come valuta di contrabbando e consegnarli tutti o quasi tutti alla  Banca popolare cinese, per avere indietro l’equivalente in renminbi al tasso  ufficiale di cambio.
Dopo migliaia di transazioni al giorno, nella Banca  popolare cinese si accumula una quantità enorme di dollari : per essere esatti,  più di un miliardo al giorno. La banca deve usare quei soldi e l’attuale sistema  cinese le consente solo un’operazione: dare i dollari a un altro ufficio del  governo centrale, l’Amministrazione statale per gli scambi con l’estero. Alla  fine è l’Amministrazione a decidere dove parcheggiare i dollari per avere il  ritorno migliore: tot in azioni statunitensi, tot in euro e la maggior parte  investita nella monotona sicurezza dei buoni del tesoro statunitensi.
Si tratta di risparmi forzati, scaturiti da due importanti scelte del  governo. Primo, fissare per decreto il valore del renminbi rispetto alle altre  valute invece di permettere che sia stabilito dalle forze
della domanda e  dell’offerta. Il motivo: tenere basso il prezzo dei prodotti cinesi, in modo che  le fabbriche del paese continuino a lavorare. È questo che hanno in mente gli  americani quando accusano il governo cinese di manovrare i mercati di valuta  mondiali. Con questi e altri strumenti il governo impone al popolo un tasso di  risparmio incredibilmente alto. Di conseguenza, i consumatori cinesi non hanno  più nessun potere d’acquisto, tranne alcuni, come i nuovi miliardari. Ma quando  si parla di riserve internazionali, l’aspetto più importante è che la spesa  complessiva della Cina è molto bassa, anche se certi cinesi spendono  moltissimo.
La seconda decisione fondamentale è quella di non spendere più  soldi per affrontare i bisogni del paese, costruendo scuole e laboratori di  ricerca agricola, o eliminando i rifiuti tossici. Entrambe le decisioni  riflettono le idee del governo su come alimentare la crescita della Cina.  Pechino non vuole che sia il mercato a stabilire il valore della moneta, perché  è convinto che questo turberebbe la crescita e lo sviluppo di un’economia basata  sulle esportazioni industriali. Sul breve termine, teme che il valore del  renminbi contro il dollaro e l’euro salga, lasciando senza lavoro alcune  fabbriche in posti importanti come Shanghai. A lungo termine, una valuta  instabile gli sembra una seccatura, perché le fluttuazioni valutarie complicano  gli scambi commerciali.
Il governo non vuole aumentare troppo le spese interne perché teme che  migliorando le condizioni di vita del cittadino medio potrebbe paradossalmente  alimentare le tensioni tra ricchi e poveri. Il paese è già invaso da bulldozer e  gru impegnate nell’espansione della macchina produttiva cinese. Cercare di  costruire qualcos’altro, per esempio impianti fognari, o favorire l’uso di  tecnologie pulite, probabilmente farebbe salire i prezzi aggravando l’inflazione  e quindi riducendo ulteriormente il basso potere d’acquisto di gran parte dei  lavoratori. I prezzi dei prodotti alimentari aumentano così in fretta che sono  già scoppiate delle rivolte. A novembre un supermercato di Chongqing ha messo in  vendita dell’olio scontato. Nella calca sono morte tre persone e 31 sono rimaste  ferite.
Questo è il patto concluso dalla Cina, o meglio il patto che i suoi leader  hanno imposto al popolo. Continueranno a creare nuovi posti di lavoro nelle  fabbriche, riducendo così le tensioni sociali del paese e offrendo delle  opportunità anche ai poveri delle campagne. Anno dopo anno i cinesi vivranno  meglio, anche se non bene come potrebbero. E saranno protetti dal rischio di  un’iperinflazione potenzialmente catastrofica che potrebbe cancellare il frutto  di decenni di crescita. In cambio il governo terrà gran parte della ricchezza  del paese in titoli investiti negli Stati Uniti. Così impedirà una corsa al  dollaro, rafforzerà i rapporti tra Pechino e Washington e inonderà di contanti  gli statunitensi, in modo che possano continuare a spenderli.
Cosa sperano i cinesi
L’opinione pubblica cinese si sta rendendo conto che il governo è seduto su  una montagna di soldi. I blogger e i giornalisti hanno stabilito un legame tra i  miliardi di dollari che il paese spedisce all’estero e i bisogni interni che non  sono soddisfatti. L’opinione pubblica comincia a comportarsi come il cliente di  un consulente finanziario: vuole più benefici con meno rischi.
Questa è la sfida che aspetta Lou Jiwei e Gao Xiqing. Il loro ruolo nel  futuro dell’economia statunitense sarà più importante di quanto si immagini.  Lou, vecchio funzionario del Partito comunista vicino ai 60 anni, è il  presidente della nuova China investment corporation (Cic), il fondo sovrano  d’investimento che dovrebbe trovare sistemi creativi per aumentare i profitti su  almeno duecento miliardi di dollari di riserve estere. Ha molta influenza nel  partito, ma poca esperienza internazionale. Perciò l’attenzione del mondo  finanziario si è spostata su Gao Xiqing, direttore generale della Cic. Vent’anni  fa, dopo la laurea alla Duke law school nel North Carolina, Gao è stato il primo  cittadino cinese a superare l’esame da avvocato nello stato di New York. Dopo  aver lavorato nello studio legale Mudge Rose di New York (il vecchio studio di  Richard Nixon) è tornato in Cina nel 1988, per insegnare diritto dei valori  mobiliari e contribuire a sviluppare le nuove borse cinesi. Per gli standard  locali, è moderno e aggiornato. Gao Xiqing e altri funzionar! della Cic hanno  evitato di esporre pubblicamente i loro progetti: “In un sistema di mercato è  meglio non dire in anticipo cosa intendi fare”.
Secondo altri osservatori, i funzionari della Cic cominciano a rendersi conto  dei problemi che li aspettano. E mentre la Cic cerca di capire il proprio  futuro, gli esterni cercano di capire la Cic, ma anche l’Amministrazione di  stato per gli scambi con l’estero, che continuerà a gestire molti beni della  Cina. Per entrambi una cosa è certa: bisogna evitare i rischi. Niente più  Blackstone. Niente Cnooc-Unocal (nel 2005 la compagnia petrolifera di stato  cinese Cnooc cercò di comprare la statunitense Unocal, ma ritirò l’offerta di  fronte alla forte opposizione degli americani).
In base alle ultime analisi di Brad Setser, anche se la Cina parla di  emancipazione dal dollaro, in realtà continua a investire una grossa fetta dei  suoi risparmi in valuta americana (tra il 65 e il 70 per cento delle sue entrate  estere). “Politicamente, l’ultima cosa che vogliono è dare segni di una perdita  di fiducia nel dollaro”, spiega Andy Rothman, della società finanziaria Clsa.  Questo, infatti, causerebbe un’impennata del renminbi e danneggerebbe gli  esportatori cinesi, per non parlare delle ripercussioni sulle riserve in  dollari.
Il problema è che gli osservatori stranieri devono indovinare gli  obiettivi della Cina. Come dice Rothman “il problema è sempre la scarsa  trasparenza di intenzioni e obiettivi”. Le piccole crisi di panico del 2007 sono  scoppiate proprio perché nessuno poteva dire con certezza se l’Amministrazione  di stato per gli scambi con l’estero stava per cambiare strada.
L’incertezza nasce anche dal mistero che avvolge i nuovi dirigenti finanziari  cinesi. Un finanziere statunitense mi ha fatto notare che ‘l’uomo responsabile  di tutta la faccenda” - Lou Jiwei - “non ha mai comprato un’azione, una macchina  o una casa”. Un altro finanziere straniero, dopo aver incontrato alcuni  collaboratori della Cic, ha commentato: “Per gli standard cinesi, sono molto  raffinati”. Ma sul piano professionale, ha proseguito, nessuno di loro ha  vissuto le ultime crisi finanziarie: il tracollo del mercato statunitense nel  1987, “l’influenza asiatica” della fine degli anni novanta, lo scoppio della  bolla di internet subito dopo. L’economia cinese è stata colpita da tutte queste  crisi, ma i colleghi di Gao Xiqing, che hanno lavorato al riparo delle  istituzioni, non hanno imparato la lezione.
Gli osservatori stranieri sostengono che la leadership finanziaria cinese non  è del tutto consapevole della diffidenza che, per ragioni giuste e sbagliate al  tempo stesso, gli altri paesi nutrono verso i progetti di Pechino. La ragione  sbagliata è il nervosismo suscitato da ogni nuova potenza emergente. “I cinesi  devono capire, ma non lo capiscono, che tutte le loro azioni saranno lette in  un’ottica politica”, mi ha detto un esperto di finanza che conosce bene la Cina  e gli Stati Uniti. “Tutto quello che compreranno, diranno e faranno, sarà visto  come un risultato di China ine”. La ragione plausibile della diffidenza, ancora  una volta, è il problema della trasparenza. Nel 2007 la Cina ha dimostrato due  volte quali possono essere le ripercussioni di una politica non trasparente. A  gennaio l’esercito ha abbattuto un satellite cinese riempiendo l’orbita di  detriti. La vicenda ha allarmato i militari statunitensi, perché sembrava  un’implicita minaccia agli importantissimi sensori spaziali americani. Per  diversi giorni il governo cinese non ha detto nulla del test, e quasi un anno  dopo gli analisti stranieri si chiedono ancora se sia trattato di una  provocazione, di un equivoco o di un’iniziativa autonoma dei militari. A  novembre la Cina ha negato a una portaerei statunitense, la Kitty Hawk, il  tradizionale permesso di attraccare a Hong Kong per il giorno del  Ringraziamento, anche se molti familiari dei militari avevano raggiunto la città  per incontrare i loro cari. In entrambi i casi, l’elemento più preoccupante era  l’incertezza sulle reali intenzioni della dirigenza cinese. Potrebbe succedere  lo stesso in campo finanziario, a meno che la Cina diventi tanto trasparente  quanto è ricca. Pechino dice di voler andare in questa direzione, ma senza  fretta. In autunno Edwin Truman ha preparato una classifica di good governance  per decine di fondi sovrani, i fondi d’investimento pubblici come la Cic. Ha  messo a confronto fondi di Singapore, Corea del Sud, Norvegia e altri paesi  classificandoli in base alla struttura di governo, all’apertura e ad altre  caratteristiche. I fondi cinesi sono finiti tra gli ultimi dieci: sono gestiti  meglio di quelli iraniani, sudanesi o algerini, ma peggio di quelli messicani,  russi o kuwaitiani. La Cina non ha ricevuto nessun punto nella categoria  “governance” e mezzo punto su 12 per “trasparenza e responsabilità”. Gli  stranieri (ma anche i cinesi qualunque) non possono avere certezze sull’insieme  di motivazioni politiche o strettamente economiche dietro le decisioni di  investimento che i dirigenti del paese potrebbero adottare. Due anni fa, quando  è andato in visita a Seattle, il presidente cinese Hu Jintao ha annunciato un  grosso acquisto di aerei Boeing. Alla fine del 2007, durante la visita in Cina  del nuovo presidente francese Nicolas Sarkozy, Hu ha annunciato un acquisto  ancora più importante di Airbus. Ogni ordine cinese per un aeroplano è una  decisione commerciale ma anche politica. Un altro aspetto della difficile arte  di interpretare la strategia d’investimento di Pechino. Dove ci sono i soldi c’è  il potere. Ne sa qualcosa Mikhail Gorbaciov, se si pensa al ruolo svolto dalla  bancarotta nel collasso dell’impero sovietico.
L’immensa ricchezza del Giappone non ha ancora trasformato il paese in un  grande protagonista della diplomazia, e la Cina finora non ha cercato  d’influenzare gli eventi al di fuori del suo immediato raggio d’azione. Ma il  tempo e il denaro potrebbero cambiare le cose. E se per ora i militari cinesi  sono troppo deboli per sfidare apertamente gli Stati Uniti perfino nello stretto  di Taiwan, anche questa situazione potrebbe cambiare.
L’equilibrio del  terrore
Portiamo alle estreme conseguenze i timori suscitati da una Cina ricca e  forte. Il governo cinese e quello statunitense sono sempre in disaccordo: sul  commercio, sulla politica estera, sull’ambiente. Un giorno il disaccordo  potrebbe aggravarsi. Taiwan, Tibet, Corea del Nord, Iran: le questioni sono  molte, anche se Taiwan è sempre in cima alla lista. Ma potrebbe trattarsi anche  di un giro di vite all’interno della Cina. O di un altro incidente, come il  bombardamento americano dell’ambasciata cinese a Belgrado nove anni fa, che in  Cina tutti considerano intenzionale e che negli Stati Uniti nessuno vuole  ricordare.
In ogni caso, dopo questa ipotetica provocazione la Cina esaminerebbe le sue  armi di pressione trovandone una più forte delle altre, una che non ha nessun  altro paese: senza il quotidiano miliardo di dollari provenienti dalla Cina, gli  Stati Uniti non riuscirebbero a mantenere stabile la loro economia né a impedire  il crollo del dollaro. La Cina sarebbe disposta a usare quest’arma? La risposta  ragionevole è no, perché danneggerebbe gravemente anche se stessa. Anni e anni  di risparmi nazionali investiti in dollari andrebbero in fumo. Se ci fosse  un’ondata di panico, la Cina potrebbe recuperarne solo una piccola parte prima  del crollo del dollaro. Le sue fabbriche, inoltre, dipendono da clienti che  hanno dollari da spendere.
Ma questa risposta è rassicurante solo in apparenza. Per descrivere la  situazione attuale Lawrence Summers parla di “equilibrio del terrore  finanziario”, dicendo che ha un vizio di fondo proprio come ai tempi della  guerra fredda. Secondo quella dottrina né gli Stati Uniti né l’Unione Sovietica  avrebbero osato ricorrere all’arma nucleare, perché voleva dire essere a loro  volta condannati alla distruzione. In un certo senso questo vale anche per la  guerra del dollaro. La Cina non può smettere di pompare dollari negli Stati  Uniti, perché rischierebbe di perdere le sue stesse riserve in valuta  statunitense. Finché la logica tiene, il sistema funziona. Appena non funzionerà  più, avremo un grosso problema. Cosa potrebbe causare un inceppamento del  meccanismo? Non necessariamente una lotta titanica sul futuro di Taiwan.  Basterebbe un semplice errore: le voci che le economie del petrolio si stanno  allontanando dal dollaro per fissare i loro prezzi in euro; una fuga di notizie  sull’intenzione del governo cinese di comprare l’Intel (con conseguenti  dichiarazioni furibonde di Washington e l’annuncio che i cinesi sarebbero  esclusi dalla prossima asta del tesoro). Molte tragedie sono state causate da  errori di valutazione e non da piani malvagi.
Oppure in entrambi i paesi potrebbero esplodere le tensioni politiche. La  squilibrata crescita della Cina indebolisce la stabilità sociale del paese  proprio mentre aumenta la sua ricchezza. E intanto la sua espansione mette in  crisi le industrie e provoca tensioni nel resto del mondo. Stranamente, i  miliardi di dollari che la Cina inietti negli Stati Uniti ogni settimana non  aiutano gli americani ad affrontare i loro problemi strutturali, ma anzi  sembrano rendere il compito più difficile. Un bel giorno, qualcosa si spezza.  Supponiamo che la Cic faccia un’altra scommessa sbagliata, un’altra WorldCom per  esempio, con miliardi di dollari del popolo cinese definitivamente spazzati via.  Avranno bisogno di qualcuno a cui dare la colpa. E gli americani non esiteranno  a rispedire le accuse al mittente.
E così arriva lo shock. Il cataclisma è inevitabile? Nessuno può saperlo  prima che sia troppo tardi. Qualche tempo fa l’economista Eswar Prasad,  dell’università di Cornell, ha -scritto che la domanda importante da farsi sulle  relazioni tra Stati Uniti e Cina è se “i due paesi sono abbastanza flessibili da  resistere e riprendersi dopo grandi sconvolgimenti, interni o esterni”. Secondo  lui però le tensioni sono già così gravi che la risposta potrebbe essere no.
L’attuale sistema statunitense apprezza i cambiamenti radicali ed è molto  tempo che non se ne vedono. Ma gli americani che hanno vissuto la Grande  depressione sanno quanto può essere doloroso un vero crollo. Anche i cinesi lo  sanno, se ripensano all’ultimo secolo vissuto dal loro paese. Gli americani si  trovano in una situazione comoda finché dura, e potrebbe durare ancora per un  po’. Ma non troppo. Anni fa i cinesi avrebbero potuto evitare le pressioni di  oggi scegliendo un approccio più lento e più equilibrato alla crescita. Se  potessero tornare indietro, però, credo che sceglierebbero la stessa strada:  hanno guadagnato moltissimo, e ora hanno le riserve necessarie per provvedere a  quello che ancora manca, quando il governo deciderà di spenderle. Lo stesso non  vale, temo, per gli Stati Uniti, che avrebbero potuto scegliere una strada  diversa: contare meno sul sostegno valutario cinese e provare a pagare i  prodotti senza mutui. Ma è tardi per queste considerazioni. Non resta che  prepararsi a quello che riserva il futuro.
L’autore
JAMES FALLOWS è un giornalista statunitense. Esperto di tecnologia ed  economia, è national correspondent dell’
Atlantic e attualmente è inviato  a Shanghai. Il suo ultimo libro è 
Blind  into Baghdad (Vintage 2006). Il suo blog è: 
jamesfallows.theatlantic.com