martedì 25 marzo 2008

Niente imballaggio. E il prezzo cala del 30%

DA REPUBBLICA GIOVEDÌ 6 MARZO 2008



Un litro di latte: dei 42 centesimi incassati dal produttore, 25 vanno al cartone
ANTONIO CIANCIULLO

ROMA - Paghiamo più il contenitore del contenuto, costa più il cellophane del pomodoro. Il mare di imballaggi che sommerge gli scaffali dei supermercati non rappresenta soltanto un problema ambientale ma comincia a diventare un peso economico. Secondo il rapporto-denuncia presentato ieri dalla Coldiretti, le confezioni incidono fino al 30 per cento sul prezzo di vendita dei prodotti e, nel caso degli alimenti, finiscono per inghiottire più soldi di quelli che arrivano nelle tasche del produttore.
Il caso più clamoroso è quello dell´insalata. Un chilo di lattuga, che porta 40 centesimi a chi lo ha coltivato, costa 1,5 euro al mercato, ma lavato e sotto cellophane schizza a 8 euro. Il paradosso vale anche per una scatola di pomodori da 700 grammi: all´agricoltore va il 12 per cento, l´imballaggio divora una percentuale doppia. E per un litro di latte fresco (1,60 euro al supermercato) il produttore incassa 42 centesimi e 25 vanno all´imballaggio, mentre se si acquista in vendita diretta a un distributore automatico il prezzo scende a 1 euro.
«Per combattere l´aumento dei prezzi bisogna fare due operazioni: ridurre gli imballaggi e ridurre il numero dei passaggi nella catena della distribuzione», osserva Stefano Masini, responsabile ambiente della Coldiretti. «In altre parole bisogna avvicinare il produttore al consumatore dando la possibilità di consumare cibo più fresco e con addosso meno chilometri e meno emissioni serra».
Tra i consigli dati dall´associazione agricola per ridurre l´impatto ambientale degli imballaggi in campo agro - alimentare (rappresentano i due terzi del totale): comprare frutta e verdura di stagione e del luogo, utilizzare le vecchie borse della spesa o gli shopper in plastica biodegradabile, evitare i piatti e le stoviglie usa e getta, acquistare prodotti in confezioni riutilizzabili.
«La tecnica degli imballaggi deve continuare a migliorare riducendo il peso e aumentando le prestazioni, come peraltro ha fatto negli ultimi anni», afferma Piero Capodieci, vicepresidente di Comieco, il consorzio per il recupero della carta. «Ma proprio perché gli imballaggi costano, se vengono usati c´è una ragione: rispondono a un cambiamento di abitudini e di stili di vita che ha portato a confezioni adatte a single con poco tempo a disposizione».
Ma l´impatto crescente del problema rifiuti sta cambiando le abitudini di un numero crescente di consumatori. Una tendenza che si misura anche con il successo dei mercati per la vendita diretta dei prodotti alimentari, un´antica abitudine italiana riproposta con il nome anglosassone: farmer market.
«Ci sono casi in cui gli imballaggi vanno non solo ridotti ma eliminati», propone Alberto Fiorillo, responsabile delle aree urbane di Legambiente. «Ad esempio ogni italiano consuma più di 200 litri di acqua minerale: una follia perché l´acqua del rubinetto è quasi sempre buona. E anche i libretti delle istruzioni degli elettrodomestici, decine di pagine in 14 lingue che quando servono non si trovano mai, sarebbe molto più utili su Internet».

domenica 23 marzo 2008

L’altra faccia di Bari


di Matteo Secchi


“Una società responsabile, non più solamente civile”.

Queste le parole usate con grande fervore ed emozione da Don Ciotti, presidente di Libera, il gruppo che coordina più di 1300 associazioni, gruppi, scuole, realtà di base, nella lotta alle mafie e per la promozione di legalità e giustizia.

E con queste parole, lo scorso 15 marzo a Bari, circa centomila persone, hanno partecipato alla XIII edizione della “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo di tutte le vittime delle mafie”.

Un corteo pacifico che ha attraversato il lungomare del capoluogo pugliese, mentre gli altoparlanti scandivano più di 700 nomi: persone che hanno dato la vita per la lotta alla mafia.

Settecento inquietanti rintocchi che cozzavano con l’allegria e i cori dei tanti giovani presenti.

Anche i politici, presenti in massa, hanno dato il loro apporto alla causa. E poi, laboratori, feste e concerti fino a tarda notte.

Questa è stata la faccia oggettiva di Bari, quella che è venuta fuori dai giornali e dalle televisioni, quella di un popolo (amministratori e politici compresi) che crede seriamente nella lotta alla mafia.

C’è un’ altra faccia però, che spesso viene lasciata da parte, quella che pochi raccontano.

E’ quella dell’ipocrisia.

Credo che tutti in Italia condannino la mafia e che tutti siano pronti a manifestare contro questa. Credo che si debba parlare di atteggiamento mafioso e non solo di mafia.

È questo comportamento a farci prendere il bus senza pagare il biglietto, che non fa fare uno scontrino per pagare meno, e così tutti gli atteggiamenti che ormai noi, nessuno escluso, facciamo e che chiaramente alimentano questa rete.

La mafia vive anche e soprattutto di questo.

Ma mentre la mafia ha una struttura piramidale, dove può esservi identificato un boss e quindi si può arrivare (in qualche modo) all’apice del sistema, la rete ha in sé un concetto molto diverso: un sistema che si autoalimenta dove non ci sono apici, dove tutti concorrono allo stesso livello, e dove ognuno cerca il modo di ricavare profitto per sé a scapito di qualcun’altro.

Credere che la mafia sia localizzata solo in quei luoghi dove fa più parlare di sé è un grande errore.

Essa è ovunque.

È nell’ipocrisia che fa dire ad un giovane “sono contro la mafia” e poi si fa uno spinello, in quella dei politici che hanno fatto sempre troppo poco per contrastare questa cultura, ma che in tempo di campagna elettorale manifestano a Bari in prima fila.

Ebbene credo che l’unica via di fuga per combattere l’ipocrisia sia la coerenza.

Dobbiamo lasciare da parte le parole e vivere coerentemente i fatti.

L’unica faccia pulita è quella di persone che coerentemente stanno spendendo la loro vita senza profitti personali per contrastare l’atteggiamento mafioso.

Parlo di Don Ciotti, parlo di Don Pino de Masi ma parlo anche di tante persone che vivono nell’ombra, senza parole, con la coerenza del fare.

Con questo non voglio contestare questo movimento giovane che, anche se incoerentemente, si è dimostrato interessato all’argomento ed ha voluto manifestare per il ricordo delle vittime.

Il mio vuole piuttosto essere un monito, un richiamo all’interruzione di questa tremenda rete che affligge l’Italia.

Manifestare un giorno è semplice, non farsi raccomandare, non superare i limiti di velocità pagare, i biglietti tutti i giorni, questo è veramente difficile.

Ma solo così potremo sconfiggere la mafia e il suo atteggiamento.

Nessuno vincerà le elezioni


da La Repubblica del 15 marzo 2008.


Se un voto si compra con cinquanta euro, nessuno vincerà le elezioni in Italia.

Nessuno. Perché finora tutti sembrano ignorare una questione fondamentale che si chiama “organizzazioni criminali” e ancor più “economia criminale”.

Non molto tempo fa il rapporto di Confesercenti valutò il fatturato delle mafie intorno a 90 miliardi di euro, pari al 7 per cento del Pil, l’equivalente di cinque manovre finanziarie.

Il titolo “La mafia s.p.a. è la più grande impresa italiana” fece il giro di tutti i giornali del mondo, eppure in campagna elettorale nessuno ne ha parlato ancora.

E nessuna parte politica sino a oggi è riuscita a prescindere dalla relazione con il potere economico dei clan. Mettersi contro di loro significa non solo perdere consenso e voti, ma anche avere difficoltà a realizzare opere pubbliche.

Non le vincerà nessuno, queste elezioni.

Perché se non si affronta subito la questione delle mafie le vinceranno sempre loro.

Indipendentemente da quale schieramento governerà il paese.

Sono già pronte, hanno già individuato con quali politici accordarsi, in entrambi gli schieramenti.

Non c’è elezione in Italia che non si vinca attraverso il voto di scambio, un’arma formidabile al sud dove la disoccupazione è alta e dopo decenni ricompare persino l’emigrazione verso l’estero. E’ cosa risaputa ma che nessuno osa affrontare.

Quando ero ragazzino il voto di scambio era più redditizio. Un voto: un posto di lavoro. Alle poste, ai ministeri, ma anche a scuola, negli ospedali, negli uffici comunali.

Mentre crescevo il voto è stato venduto per molto meno.

Bollette del telefono e della luce pagate per i due mesi precedenti alle elezioni e per il mese successivo.

Nelle penultime la novità era il cellulare. Ti regalavano un telefonino modificato per fotografare la scheda in cabina senza far sentire il click.

Solo i più fortunati ottenevano un lavoro a tempo determinato.

Alle ultime elezioni il valore del voto era sceso a 50 euro.

Quasi come al tempo di Achille Lauro, l’imprenditore sindaco di Napoli che negli anni cinquanta regalava pacchi di pasta e la scarpa sinistra di un paio nuovo di zecca, mentre la destra veniva recapitata dopo la vittoria.

Oggi si ottengono voti per poco, per pochissimo.

La disperazione del meridione che arriva a svendere il proprio voto per 50 euro sembra inversamente proporzionale alla potenza della più grande impresa italiana che lo domina.

Mai come in questi anni la politica in Italia viene unanimemente disprezzata.

Dagli italiani è percepita come prosecuzione di affari privati nella sfera pubblica.

Ha perso la sua vocazione primaria: creare progetti, stabilire obiettivi, mettere mano con determinazione alla risoluzione dei problemi.

Nessuno pretende che possa rigenerarsi nell’arco di una campagna elettorale.

Ma nel vuoto di potere in cui si è fatta serva di maneggi e interessate miopie prevalgono poteri incompatibili con una democrazia avanzata.

E’ una democrazia avanzata quella in cui 172 amministrazioni comunali negli ultimi anni sono stati sciolti per infiltrazione mafiosa?

O dove dal ‘92 a oggi, le organizzazioni [criminali] hanno ucciso più di 3.100 persone?

Più che a Beirut?

Se vuole essere davvero nuovo, il Partito Democratico di Walter Veltroni non abbia paura di cambiare. Non scenda a compromessi per paura di perdere.

Il governo Prodi è caduto in terra di camorra.

Ha forse sottovalutato non tanto Clemente Mastella, il leader del piccolo partito Udeur, ma i rischi che comportava l’inserimento nelle liste di una parte dei suoi uomini.

Personaggi sconosciuti all’opinione pubblica, ma che negli atti di alcuni magistrati vengono descritti come cerniera tra pubblica amministrazione e criminalità organizzata.

Nel frattempo il governo ha permesso al governatore della Campania Bassolino di galleggiare nonostante il suo fallimento nella gestione dell’emergenza rifiuti.

E non ha capito che quella situazione rappresenta solo l’esempio più clamoroso di quel che può accadere quando il cedimento anche solo passivo della politica ad interessi criminali porta allo scacco.

Tutto questo mentre il centrodestra guidato da Silvio Berlusconi assisteva muto o giustificatorio ai festeggiamenti del governatore della Sicilia Cuffaro per una condanna che confermava i suoi favori a vantaggio di un boss, limitandosi a scagionarlo dall’accusa di essere lui stesso un mafioso vero e proprio.

La questione della trasparenza tocca tutti i partiti e il paese intero.

Inoltre molta militanza antimafiosa si forma nei gruppi di giovani cattolici i cui voti non sempre vanno al centrosinistra.

Anche questi elettori dovrebbero pretendere che non siano candidate soubrette o personaggi capaci solo di difendere il proprio interesse.

Pretendano gli elettori di centrodestra che non ci siano solo soubrette e a sud esponenti di consorterie imprenditoriali.

E mi vengono in mente le parole che Giovanni Paolo II il 9 maggio del 1993 rivolse dalla collina di Agrigento alla Sicilia e all’Italia ferita dalle stragi di mafia: “Questo popolo ... talmente attaccato alla vita, che ama la vita, che dà la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte ... Mi rivolgo ai responsabili ... Un giorno verrà il giudizio di Dio”.

Parole che avrebbero dovuto crescere nelle coscienze.

È tempo di rendersi conto che la richiesta di candidati non compromessi va ben oltre la questione morale. Strappare la politica al suo connubio con la criminalità organizzata non è una scelta etica, ma una necessità di vitale autodifesa.

Io non entrerò in politica. Il mio mestiere è quello di scrittore. E fin quando riuscirò a scrivere, continuerò a considerare questo lo strumento di impegno più forte che possiedo.

Racconto il potere, ma non riuscirei a gestirlo. Non si tratta di rinunciare ad assumersi la propria responsabilità, ma considerarla parte del proprio lavoro.

Tentare di impedire che il chiasso delle polemiche distolga l’attenzione verso problemi che meno fanno rumore, più fanno danno.

O che le disquisizioni morali coprano le scelte concrete a cui sono chiamati tutti i partiti. È questo il compito che a mio avviso resta nelle mani di un intellettuale.

Credo sia giunto il momento di non permettere più che un voto sia comprabile con pochi spiccioli.

Che futuri ministri, assessori, sindaci, consiglieri comunali possano ottenere consenso promettendo qualche misero favore. Forse è arrivato il momento di non accontentarci.

Nel 1793 la Costituzione francese aveva previsto il diritto all’insurrezione: forse è il momento di far valere in Italia il diritto alla non sopportazione.

A non svendere il proprio voto.

A dare ancora un senso alla scelta democratica, scegliendo di non barattare il proprio destino con un cellulare o la luce pagata per qualche mese.

di Roberto Saviano

lunedì 17 marzo 2008

Il dollaro Cinese


Sono venticinque anni che la Cina ha aperto le porte ai mercati mondiali. Da allora i leader del paese hanno tenuto deliberatamente basso il tenore di vita dei loro cittadini e hanno sostenuto quello degli statunitensi. Si spiega così l’enorme eccedenza della bilancia commerciale cinese - più di 1.400 miliardi di dollari che crescono al ritmo di un miliardo al giorno - investita soprattutto in titoli del tesoro statunitense. Di fatto, negli ultimi dieci anni ogni abitante della (ricca) America ha preso in prestito circa quattromila dollari da un cittadino della (povera) Repubblica Popolare Cinese.
Qualunque economista può dire che gli americani vivono al di sopra delle loro possibilità. È quello che succede quando il consumo totale di un paese supera la sua produzione complessiva, come nel caso degli Stati Uniti. Gli economisti sottolineano che, malgrado le scintillanti metropoli e i nuovi miliardari, i cinesi vivono molto peggio di quanto potrebbero. E questo succede quando un paese consuma solo la metà di quello che produce, come fa la Cina.
Nessuno dei due governi vuole richiamare l’attenzione su questo tacito accordo, che ha fatto molto comodo a entrambe le parti. In Cina ha aiutato il regime a orientare lo sviluppo come ha voluto. Per l’America ha significato iPod meno costosi, tassi di interesse più bassi, mutui a buon mercato, imposte meno alte. Ma cominciano a farsi sentire le tensioni politiche nei due paesi, unite alle dimensioni enormi e in continuo aumento dello squilibrio.
Perché la Cina ha tanti soldi
II valore del dollaro è innaturalmente alto da parecchi anni, in gran parte a causa del tacito patto con la Cina. Per lo stesso motivo, il tenore di vita cinese, anche se in rapida crescita, è rimasto innaturalmente basso. Questa situazione probabilmente non durerà. Per capire perché, vediamo com’è nato questo strano equilibrio di potere e come funziona. Nel 1996 la Cina aveva già risparmiato i suoi primi cento miliardi di dollari in valuta estera, soprattutto dollari statunitensi. La Cina considera queste riserve un segreto di stato, perciò tutte le cifre sono 1 frutto di analisi di esperti esterni). Secondo Edwin Truman, del Peterson institute for international economics di Washington, nel 2001 la cifra era raddoppiata arrivando a duecento miliardi di dollari. Da allora ha superato i mille miliardi di dollari, e oggi le riserve estere della Cina sono le più grandi del mondo. Secondo le ultime analisi di Brad Setser, un ex economista del dipartimento del tesoro che ora collabora con il Council on foreign relations, i beni della Cina in dollari statunitensi probabilmente costituiscono il 70 per cento delle sue riserve estere, mentre l’altro 30 per cento è soprattutto in euro più qualche yen.
Gli americani si chiedono se sia giusto contare così sul denaro controllato da un governo straniero. Il dibattito è senza dubbio molto pertinente perché l’America non è mai stata così indebitata con un solo paese. Nel frattempo anche i cinesi si chiedono se questo accordo abbia senso per loro. Le autorità di Pechino sanno che i loro acquisti di azioni sostengono i fondi pensione statunitensi e che la loro presenza sul mercato monetario mantiene bassi i tassi d’interesse americani, proprio come fanno i loro acquisti di obbligazioni. E in più permettono a Washington di spendere senza alzare le tasse. “tutto questo sembra quanto meno strano”, mi ha detto l’anno scorso a Shanghai Lawrence Summers, ex segretario del tesoro e rettore di Harvard. Si riferiva al fatto che un paese con tante necessità ancora da soddisfare permetta a “mille miliardi di dollari di spostarsi da un paese giovane e dinamico a uno maturo, vecchio e ricco”.
È più che strano. Alcuni cinesi sono ricchi, ma alla Cina manca ancora molto per poter essere definita completamente sviluppata. Shanghai ha quasi lo stesso clima di Washington, ma le sue scuole pubbliche sono senza riscaldamento (entrate in una classe quando è freddo e vedrete quaranta bambini, tutti con il giubbotto invernale e il respiro che forma nuvolette nell’aria). Pechino somiglia più a Boston. Nelle notti invernali migliaia di persone si ammassano lungo i marciapiedi e aspettano autobus disperatamente sovraffollati, che poi si bloccano per ore nel traffico. E queste sono le città-vetrina. Nella provincia rurale di Gansu ho visto scuole dove 18 ragazzine delle medie dividono la stessa stanza dormendo fianco a fianco come sardine.
Scuole moderne, parchi, migliore assistenza sanitaria, aria e acqua più pulite, sistemi fognali più efficienti: in Cina manca qualunque cosa non sia collegata al settore delle esportazioni. Il reddito medio degli operai di una grande fabbrica è di circa 160 dollari al mese, nelle campagne è solo una piccola frazione di questa cifra. La maggior parte della popolazione in Cina pensa che le sue condizioni stiano migliorando, ma da un punto di partenza molto basso.
E allora perché la Cina spedisce i suoi soldi negli Stati Uniti? Un economista lo spiegherebbe dicendo che in Cina i risparmi sono i più alti del mondo. Può sembrare meraviglioso, ma quando si arriva agli estremi - come in Cina - questo indica un’economia fuori sintonia con il resto del mondo e un governo che mantiene i livelli di vita della sua popolazione volutamente più bassi del dovuto.
Per fare un confronto, il tasso di risparmio dell’India è di circa il 25 per cento: significa che la popolazione indiana consuma il 75 per cento di quanto produce collettivamente (il tasso di risparmio è la quota del reddito nazionale esportata o risparmiata e investita per essere consumata in futuro, cioè è quello che il popolo produce ma non usa). Recentemente gli Stati Uniti hanno registrato più volte un tasso negativo. Quindi il paese consuma attraverso le importazioni più di quanto produce.
Il tasso di risparmio della Cina è uno stupefacente 50 per cento, un dato forse senza precedenti per un paese in tempo di pace. Questo non significa che la famiglia media risparmia metà dei suoi guadagni, anche se il tasso di risparmio personale nel paese è molto alto. Infatti, quasi tutto il reddito nazionale è “risparmiato” in modo quasi invisibile e conservato sotto forma di riserve estere. Finora, la maggior parte dei cinesi l’ha tollerato perché l’economia è cresciuta così in fretta che perfino un livello di consumo frenato anno dopo anno ha reso la gente più ricca.
Il viaggio di un dollaro
Però, dire che la Cina ha un alto tasso di risparmio descrive la situazione senza spiegarla. Perché il Partito comunista cinese dovrebbe consentire una politica che toglie tanta ricchezza al paese per darla agli Stati Uniti? E perché la Cina dovrebbe essere contenta di avere tante riserve in dollari sapendo che il dollaro continuerà a perdere valore contro il renminbi? E per quanto tempo le persone sopporteranno di essere private di gran parte dei loro guadagni, quando ne hanno bisogno? Quella di far stringere la cinghia alle persone e al tempo stesso di offrire denaro a basso costo a chi deve comprarsi una casa in America non è stata una scelta deliberata di Pechino. Però è la conseguenza di alcune scelte deliberate, due in particolare. Entrambe nascono dai controlli del governo su un’economia che per altri versi è molto aperta.
Per capire il meccanismo proviamo a seguire un dollaro americano nel suo viaggio dalle mani di un consumatore statunitense a una fattoria in Cina, e poi di nuovo negli Stati Uniti per l’asta dei buoni del tesoro.
Avete comprato uno spazzolino elettrico di marca statunitense che costa 30 dollari in un negozio negli Stati Uniti.
Probabilmente è stato prodotto da una fabbrica in Cina. La maggior parte di quei trenta dollari resta al distributore e al produttore, cioè negli Stati Uniti. Nella fabbrica cinese tornano circa tre dollari, la cifra media per questi prodotti.
Quando la fabbrica ha fatto la sua prima offerta per l’appalto, ha dichiarato il prezzo in dollari: tanti milioni di spazzolini a tanti dollari ciascuno. Ma il produttore cinese non può usare i dollari direttamente. Ha bisogno di renminbi per pagare il salario agli operai (1.200 renminbi, 160 dollari), per comprare rifornimenti da altre fabbriche cinesi, per pagare le tasse. Perciò porta i dollari nella banca locale. Dopo aver presentato le ricevute o le bolle di consegna per dimostrare di aver guadagnato i dollari con un vero commercio e non con una speculazione, la fabbrica li cambia in renminbi.
Qui arriva il primo controllo. In altri grandi paesi, le banche possono decidere da sole cosa fare dei dollari che incassano. Cambiarli in euro o in yen; investirli direttamente in America; concedere prestiti in dollari: qualunque cosa che a loro giudizio possa garantire il ritorno più alto. Le banche cinesi, invece, non possono fare niente di tutto questo. Devono trattare i dollari come valuta di contrabbando e consegnarli tutti o quasi tutti alla Banca popolare cinese, per avere indietro l’equivalente in renminbi al tasso ufficiale di cambio.
Dopo migliaia di transazioni al giorno, nella Banca popolare cinese si accumula una quantità enorme di dollari : per essere esatti, più di un miliardo al giorno. La banca deve usare quei soldi e l’attuale sistema cinese le consente solo un’operazione: dare i dollari a un altro ufficio del governo centrale, l’Amministrazione statale per gli scambi con l’estero. Alla fine è l’Amministrazione a decidere dove parcheggiare i dollari per avere il ritorno migliore: tot in azioni statunitensi, tot in euro e la maggior parte investita nella monotona sicurezza dei buoni del tesoro statunitensi.
Si tratta di risparmi forzati, scaturiti da due importanti scelte del governo. Primo, fissare per decreto il valore del renminbi rispetto alle altre valute invece di permettere che sia stabilito dalle forze
della domanda e dell’offerta. Il motivo: tenere basso il prezzo dei prodotti cinesi, in modo che le fabbriche del paese continuino a lavorare. È questo che hanno in mente gli americani quando accusano il governo cinese di manovrare i mercati di valuta mondiali. Con questi e altri strumenti il governo impone al popolo un tasso di risparmio incredibilmente alto. Di conseguenza, i consumatori cinesi non hanno più nessun potere d’acquisto, tranne alcuni, come i nuovi miliardari. Ma quando si parla di riserve internazionali, l’aspetto più importante è che la spesa complessiva della Cina è molto bassa, anche se certi cinesi spendono moltissimo.
La seconda decisione fondamentale è quella di non spendere più soldi per affrontare i bisogni del paese, costruendo scuole e laboratori di ricerca agricola, o eliminando i rifiuti tossici. Entrambe le decisioni riflettono le idee del governo su come alimentare la crescita della Cina. Pechino non vuole che sia il mercato a stabilire il valore della moneta, perché è convinto che questo turberebbe la crescita e lo sviluppo di un’economia basata sulle esportazioni industriali. Sul breve termine, teme che il valore del renminbi contro il dollaro e l’euro salga, lasciando senza lavoro alcune fabbriche in posti importanti come Shanghai. A lungo termine, una valuta instabile gli sembra una seccatura, perché le fluttuazioni valutarie complicano gli scambi commerciali.
Il governo non vuole aumentare troppo le spese interne perché teme che migliorando le condizioni di vita del cittadino medio potrebbe paradossalmente alimentare le tensioni tra ricchi e poveri. Il paese è già invaso da bulldozer e gru impegnate nell’espansione della macchina produttiva cinese. Cercare di costruire qualcos’altro, per esempio impianti fognari, o favorire l’uso di tecnologie pulite, probabilmente farebbe salire i prezzi aggravando l’inflazione e quindi riducendo ulteriormente il basso potere d’acquisto di gran parte dei lavoratori. I prezzi dei prodotti alimentari aumentano così in fretta che sono già scoppiate delle rivolte. A novembre un supermercato di Chongqing ha messo in vendita dell’olio scontato. Nella calca sono morte tre persone e 31 sono rimaste ferite.
Questo è il patto concluso dalla Cina, o meglio il patto che i suoi leader hanno imposto al popolo. Continueranno a creare nuovi posti di lavoro nelle fabbriche, riducendo così le tensioni sociali del paese e offrendo delle opportunità anche ai poveri delle campagne. Anno dopo anno i cinesi vivranno meglio, anche se non bene come potrebbero. E saranno protetti dal rischio di un’iperinflazione potenzialmente catastrofica che potrebbe cancellare il frutto di decenni di crescita. In cambio il governo terrà gran parte della ricchezza del paese in titoli investiti negli Stati Uniti. Così impedirà una corsa al dollaro, rafforzerà i rapporti tra Pechino e Washington e inonderà di contanti gli statunitensi, in modo che possano continuare a spenderli.
Cosa sperano i cinesi
L’opinione pubblica cinese si sta rendendo conto che il governo è seduto su una montagna di soldi. I blogger e i giornalisti hanno stabilito un legame tra i miliardi di dollari che il paese spedisce all’estero e i bisogni interni che non sono soddisfatti. L’opinione pubblica comincia a comportarsi come il cliente di un consulente finanziario: vuole più benefici con meno rischi.
Questa è la sfida che aspetta Lou Jiwei e Gao Xiqing. Il loro ruolo nel futuro dell’economia statunitense sarà più importante di quanto si immagini. Lou, vecchio funzionario del Partito comunista vicino ai 60 anni, è il presidente della nuova China investment corporation (Cic), il fondo sovrano d’investimento che dovrebbe trovare sistemi creativi per aumentare i profitti su almeno duecento miliardi di dollari di riserve estere. Ha molta influenza nel partito, ma poca esperienza internazionale. Perciò l’attenzione del mondo finanziario si è spostata su Gao Xiqing, direttore generale della Cic. Vent’anni fa, dopo la laurea alla Duke law school nel North Carolina, Gao è stato il primo cittadino cinese a superare l’esame da avvocato nello stato di New York. Dopo aver lavorato nello studio legale Mudge Rose di New York (il vecchio studio di Richard Nixon) è tornato in Cina nel 1988, per insegnare diritto dei valori mobiliari e contribuire a sviluppare le nuove borse cinesi. Per gli standard locali, è moderno e aggiornato. Gao Xiqing e altri funzionar! della Cic hanno evitato di esporre pubblicamente i loro progetti: “In un sistema di mercato è meglio non dire in anticipo cosa intendi fare”.
Secondo altri osservatori, i funzionari della Cic cominciano a rendersi conto dei problemi che li aspettano. E mentre la Cic cerca di capire il proprio futuro, gli esterni cercano di capire la Cic, ma anche l’Amministrazione di stato per gli scambi con l’estero, che continuerà a gestire molti beni della Cina. Per entrambi una cosa è certa: bisogna evitare i rischi. Niente più Blackstone. Niente Cnooc-Unocal (nel 2005 la compagnia petrolifera di stato cinese Cnooc cercò di comprare la statunitense Unocal, ma ritirò l’offerta di fronte alla forte opposizione degli americani).
In base alle ultime analisi di Brad Setser, anche se la Cina parla di emancipazione dal dollaro, in realtà continua a investire una grossa fetta dei suoi risparmi in valuta americana (tra il 65 e il 70 per cento delle sue entrate estere). “Politicamente, l’ultima cosa che vogliono è dare segni di una perdita di fiducia nel dollaro”, spiega Andy Rothman, della società finanziaria Clsa. Questo, infatti, causerebbe un’impennata del renminbi e danneggerebbe gli esportatori cinesi, per non parlare delle ripercussioni sulle riserve in dollari.
Il problema è che gli osservatori stranieri devono indovinare gli obiettivi della Cina. Come dice Rothman “il problema è sempre la scarsa trasparenza di intenzioni e obiettivi”. Le piccole crisi di panico del 2007 sono scoppiate proprio perché nessuno poteva dire con certezza se l’Amministrazione di stato per gli scambi con l’estero stava per cambiare strada.
L’incertezza nasce anche dal mistero che avvolge i nuovi dirigenti finanziari cinesi. Un finanziere statunitense mi ha fatto notare che ‘l’uomo responsabile di tutta la faccenda” - Lou Jiwei - “non ha mai comprato un’azione, una macchina o una casa”. Un altro finanziere straniero, dopo aver incontrato alcuni collaboratori della Cic, ha commentato: “Per gli standard cinesi, sono molto raffinati”. Ma sul piano professionale, ha proseguito, nessuno di loro ha vissuto le ultime crisi finanziarie: il tracollo del mercato statunitense nel 1987, “l’influenza asiatica” della fine degli anni novanta, lo scoppio della bolla di internet subito dopo. L’economia cinese è stata colpita da tutte queste crisi, ma i colleghi di Gao Xiqing, che hanno lavorato al riparo delle istituzioni, non hanno imparato la lezione.
Gli osservatori stranieri sostengono che la leadership finanziaria cinese non è del tutto consapevole della diffidenza che, per ragioni giuste e sbagliate al tempo stesso, gli altri paesi nutrono verso i progetti di Pechino. La ragione sbagliata è il nervosismo suscitato da ogni nuova potenza emergente. “I cinesi devono capire, ma non lo capiscono, che tutte le loro azioni saranno lette in un’ottica politica”, mi ha detto un esperto di finanza che conosce bene la Cina e gli Stati Uniti. “Tutto quello che compreranno, diranno e faranno, sarà visto come un risultato di China ine”. La ragione plausibile della diffidenza, ancora una volta, è il problema della trasparenza. Nel 2007 la Cina ha dimostrato due volte quali possono essere le ripercussioni di una politica non trasparente. A gennaio l’esercito ha abbattuto un satellite cinese riempiendo l’orbita di detriti. La vicenda ha allarmato i militari statunitensi, perché sembrava un’implicita minaccia agli importantissimi sensori spaziali americani. Per diversi giorni il governo cinese non ha detto nulla del test, e quasi un anno dopo gli analisti stranieri si chiedono ancora se sia trattato di una provocazione, di un equivoco o di un’iniziativa autonoma dei militari. A novembre la Cina ha negato a una portaerei statunitense, la Kitty Hawk, il tradizionale permesso di attraccare a Hong Kong per il giorno del Ringraziamento, anche se molti familiari dei militari avevano raggiunto la città per incontrare i loro cari. In entrambi i casi, l’elemento più preoccupante era l’incertezza sulle reali intenzioni della dirigenza cinese. Potrebbe succedere lo stesso in campo finanziario, a meno che la Cina diventi tanto trasparente quanto è ricca. Pechino dice di voler andare in questa direzione, ma senza fretta. In autunno Edwin Truman ha preparato una classifica di good governance per decine di fondi sovrani, i fondi d’investimento pubblici come la Cic. Ha messo a confronto fondi di Singapore, Corea del Sud, Norvegia e altri paesi classificandoli in base alla struttura di governo, all’apertura e ad altre caratteristiche. I fondi cinesi sono finiti tra gli ultimi dieci: sono gestiti meglio di quelli iraniani, sudanesi o algerini, ma peggio di quelli messicani, russi o kuwaitiani. La Cina non ha ricevuto nessun punto nella categoria “governance” e mezzo punto su 12 per “trasparenza e responsabilità”. Gli stranieri (ma anche i cinesi qualunque) non possono avere certezze sull’insieme di motivazioni politiche o strettamente economiche dietro le decisioni di investimento che i dirigenti del paese potrebbero adottare. Due anni fa, quando è andato in visita a Seattle, il presidente cinese Hu Jintao ha annunciato un grosso acquisto di aerei Boeing. Alla fine del 2007, durante la visita in Cina del nuovo presidente francese Nicolas Sarkozy, Hu ha annunciato un acquisto ancora più importante di Airbus. Ogni ordine cinese per un aeroplano è una decisione commerciale ma anche politica. Un altro aspetto della difficile arte di interpretare la strategia d’investimento di Pechino. Dove ci sono i soldi c’è il potere. Ne sa qualcosa Mikhail Gorbaciov, se si pensa al ruolo svolto dalla bancarotta nel collasso dell’impero sovietico.
L’immensa ricchezza del Giappone non ha ancora trasformato il paese in un grande protagonista della diplomazia, e la Cina finora non ha cercato d’influenzare gli eventi al di fuori del suo immediato raggio d’azione. Ma il tempo e il denaro potrebbero cambiare le cose. E se per ora i militari cinesi sono troppo deboli per sfidare apertamente gli Stati Uniti perfino nello stretto di Taiwan, anche questa situazione potrebbe cambiare.
L’equilibrio del terrore
Portiamo alle estreme conseguenze i timori suscitati da una Cina ricca e forte. Il governo cinese e quello statunitense sono sempre in disaccordo: sul commercio, sulla politica estera, sull’ambiente. Un giorno il disaccordo potrebbe aggravarsi. Taiwan, Tibet, Corea del Nord, Iran: le questioni sono molte, anche se Taiwan è sempre in cima alla lista. Ma potrebbe trattarsi anche di un giro di vite all’interno della Cina. O di un altro incidente, come il bombardamento americano dell’ambasciata cinese a Belgrado nove anni fa, che in Cina tutti considerano intenzionale e che negli Stati Uniti nessuno vuole ricordare.
In ogni caso, dopo questa ipotetica provocazione la Cina esaminerebbe le sue armi di pressione trovandone una più forte delle altre, una che non ha nessun altro paese: senza il quotidiano miliardo di dollari provenienti dalla Cina, gli Stati Uniti non riuscirebbero a mantenere stabile la loro economia né a impedire il crollo del dollaro. La Cina sarebbe disposta a usare quest’arma? La risposta ragionevole è no, perché danneggerebbe gravemente anche se stessa. Anni e anni di risparmi nazionali investiti in dollari andrebbero in fumo. Se ci fosse un’ondata di panico, la Cina potrebbe recuperarne solo una piccola parte prima del crollo del dollaro. Le sue fabbriche, inoltre, dipendono da clienti che hanno dollari da spendere.
Ma questa risposta è rassicurante solo in apparenza. Per descrivere la situazione attuale Lawrence Summers parla di “equilibrio del terrore finanziario”, dicendo che ha un vizio di fondo proprio come ai tempi della guerra fredda. Secondo quella dottrina né gli Stati Uniti né l’Unione Sovietica avrebbero osato ricorrere all’arma nucleare, perché voleva dire essere a loro volta condannati alla distruzione. In un certo senso questo vale anche per la guerra del dollaro. La Cina non può smettere di pompare dollari negli Stati Uniti, perché rischierebbe di perdere le sue stesse riserve in valuta statunitense. Finché la logica tiene, il sistema funziona. Appena non funzionerà più, avremo un grosso problema. Cosa potrebbe causare un inceppamento del meccanismo? Non necessariamente una lotta titanica sul futuro di Taiwan. Basterebbe un semplice errore: le voci che le economie del petrolio si stanno allontanando dal dollaro per fissare i loro prezzi in euro; una fuga di notizie sull’intenzione del governo cinese di comprare l’Intel (con conseguenti dichiarazioni furibonde di Washington e l’annuncio che i cinesi sarebbero esclusi dalla prossima asta del tesoro). Molte tragedie sono state causate da errori di valutazione e non da piani malvagi.
Oppure in entrambi i paesi potrebbero esplodere le tensioni politiche. La squilibrata crescita della Cina indebolisce la stabilità sociale del paese proprio mentre aumenta la sua ricchezza. E intanto la sua espansione mette in crisi le industrie e provoca tensioni nel resto del mondo. Stranamente, i miliardi di dollari che la Cina inietti negli Stati Uniti ogni settimana non aiutano gli americani ad affrontare i loro problemi strutturali, ma anzi sembrano rendere il compito più difficile. Un bel giorno, qualcosa si spezza. Supponiamo che la Cic faccia un’altra scommessa sbagliata, un’altra WorldCom per esempio, con miliardi di dollari del popolo cinese definitivamente spazzati via. Avranno bisogno di qualcuno a cui dare la colpa. E gli americani non esiteranno a rispedire le accuse al mittente.
E così arriva lo shock. Il cataclisma è inevitabile? Nessuno può saperlo prima che sia troppo tardi. Qualche tempo fa l’economista Eswar Prasad, dell’università di Cornell, ha -scritto che la domanda importante da farsi sulle relazioni tra Stati Uniti e Cina è se “i due paesi sono abbastanza flessibili da resistere e riprendersi dopo grandi sconvolgimenti, interni o esterni”. Secondo lui però le tensioni sono già così gravi che la risposta potrebbe essere no.
L’attuale sistema statunitense apprezza i cambiamenti radicali ed è molto tempo che non se ne vedono. Ma gli americani che hanno vissuto la Grande depressione sanno quanto può essere doloroso un vero crollo. Anche i cinesi lo sanno, se ripensano all’ultimo secolo vissuto dal loro paese. Gli americani si trovano in una situazione comoda finché dura, e potrebbe durare ancora per un po’. Ma non troppo. Anni fa i cinesi avrebbero potuto evitare le pressioni di oggi scegliendo un approccio più lento e più equilibrato alla crescita. Se potessero tornare indietro, però, credo che sceglierebbero la stessa strada: hanno guadagnato moltissimo, e ora hanno le riserve necessarie per provvedere a quello che ancora manca, quando il governo deciderà di spenderle. Lo stesso non vale, temo, per gli Stati Uniti, che avrebbero potuto scegliere una strada diversa: contare meno sul sostegno valutario cinese e provare a pagare i prodotti senza mutui. Ma è tardi per queste considerazioni. Non resta che prepararsi a quello che riserva il futuro.
L’autore
JAMES FALLOWS è un giornalista statunitense. Esperto di tecnologia ed economia, è national correspondent dell’Atlantic e attualmente è inviato a Shanghai. Il suo ultimo libro è Blind into Baghdad (Vintage 2006). Il suo blog è: jamesfallows.theatlantic.com

sabato 1 marzo 2008

La Chiesa e l'ICI( che adesso vogliamo togliere)


Nelle scorse settimane si era riacceso il dibattito sui privilegi in materia fiscale della Chiesa Cattolica e del Vaticano. In particolar modo l'attenzione era concentrata sull'ICI, ma la Chiesa ha un trattamento di favore anche sull'IRPEF e sull'IRES. Monsignor Bagnasco e monsignor Fisichella hanno dichiarato, mentendo, "La Chiesa non ha nessun privilegio sul fronte fiscale". Niente di più falso: la Chiesa non paga l'Imposta sugli immobili neppure per le attività commerciali. E grazie alla legge finanziaria del governo Prodi continuerà a non pagarla.

L'ICI è stata istituita dal Decreto Legislativo 504/1992 e, all'articolo 7, comma 1, lettera i) stabilisce che sono esentati dal pagamento:
"gli immobili utilizzati dai soggetti di cui all’articolo 87, comma 1, lettera c), del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’articolo 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222."
Inoltre, il comma 2 del medesimo articolo stabilisce che:
"L'esenzione spetta per il periodo dell'anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte."
i soggetti previsti dall'articolo 87, comma 1, lettera c) del DPR 917/86 sono:
"gli enti pubblici e privati diversi dalle società, residenti nel territorio dello Stato, che non hanno per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciali"
le attività previste dall'articolo 16, lettera a), della Legge 222/85, sono:
"attività di religione o di culto quelle dirette all'esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all'educazione cristiana"
Riassumendo: sono esentati dal pagamento dell'ICI gli immobili della Chiesa al verificarsi contemporaneamente di due condizioni:
  1. che la proprietà sia di enti senza fini di lucro;
  2. che vengano usati esclusivamente per svolgere attività di culto, educazione, assistenza, culturali, ricreative, sportive...;
Nella marzo 2004, la Cassazione ha emanato quattro sentenze (4573, 4642, 4644, 4645) con cui condannava un istituto religioso al pagamento dell'ICI perché svolge attività commerciali all'interno dei suoi immobili, confermando le disposizioni della Commissione Tributaria Provinciale. Le suore Zelatrici del Sacro Cuore di Ancona ritenevano di non dover pagare l'ICI relativa agli immobili utilizzati come casa di cura a pagamento e come studentato a pagamento.

Per evitare che, dopo le sentenze della Cassazione, la chiesa fosse costretta al pagamento dell'ICI con tanto di arretrati, nel Decreto Legge 163/2005 dal titolo "Disposizioni urgenti in materia di infrastrutture", venne inserito l'articolo 7 che sanciva l'esenzione dall'ICI di tutti gli immobili della Chiesa:
"L'esenzione prevista dall'articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, e successive modificazioni, si intende applicabile anche nei casi di immobili utilizzati per le attività di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura di cui all'articolo 16, primo comma, lettera b), della legge 20 maggio 1985, n. 222, pur svolte in forma commerciale se connesse a finalità di religione o di culto."
Questo Decreto è decaduto perché non è mai stato ratificato dal Parlamento, ma la chiesa continua a sostenere di non dover pagare l'ICI, di non essere evasore e di non avere privilegi.

Per chiarire meglio la questione è utile fare degli esempi. Nel mio comune ci sono alcuni bar, due dei quali interni agli oratori. I bar della parrocchia non pagano l'ICI, gli altri si. La stessa cosa vale per tutte le altre attività: ospedali, ospizi, ristoranti, negozi, palestre, piscine, cinema, teatri, librerie, musei, ecc... .

Le attività commerciali della Chiesa vengono quindi poste in una condizione di vantaggio rispetto alle altre. Per questo motivo l'Unione Europea ha chiesto allo Stato Italiano informazioni in merito, in modo tale da poter valutare se sia il caso di aprire un'inchiesta. L'esenzione dall'ICI, infatti, può configurarsi come aiuto di Stato in contrasto con i principi della libera concorrenza, uno dei capisaldi del mercato comune europeo.

Quanti sono gli immobili della ecclesiastici in Italia? Secondo Franco Alemani, del gruppo RE, consulente di preti e suore per il mercato del mattone, circa il 20-22% dell'intero patrimonio immobiliare italiano è in mano alla Chiesa. Secondo Repubblica:
"solo a Roma ci sono 550 tra istituti e conventi, 500 chiese, 250 scuole, 200 case generalizie 65 case di cura, 50 missioni, 43 collegi, 30 monasteri, 25 case di riposo e ospizi, 18 ospedali. Sono quasi 2 mila gli enti religiosi residenti e risultano proprietari di circa 20 mila terreni e fabbricati. Va ricordato la legge istitutiva dell'Ici esentava i luoghi di culto e le loro pertinenze per cui alcune non sono mai state nemmeno segnalate ai comuni."
A quanto ammonta il mancato gettito per le casse dei comuni italiani? La perdita è valutata dalla CEI in circa 1 miliardo di euro l'anno; i comuni cittadini pagano invece circa 3 miliardi di euro l'anno. Se anche la Chiesa pagasse l'ICI, le famiglie italiane potrebbero risparmiare il 33% senza aggravio per le casse comunali.