domenica 28 dicembre 2008

Telefonate telefonate Telefonate!!!!

Telefonate telefonate Telefonate!!!!


Berlusconi sulle intercettazioni
"Se escono mie telefonate lascio l'Italia"

Il premier: "Non è democratico un Paese in cui tutti temono di essere intercettati" Poi detta le tappe delle riforme: "Prima il federalismo, poi la giustizia". "Il presidenzialismo non è all'ordine del giorno". La Finocchiaro: "E' ammalato di bulimia mediatica"


Il Cavaliere fissa i paletti per un incontro con il Pd e stila il calendario. "Federalismo
poi la giustizia. Non è democratico un Paese in cui tutti hanno paura di essere intercettati

Riforme, Berlusconi ai democratici
"Dialogo solo con divorzo da Di Pietro"

La Finocchiaro (Pd): "Il premier ammalato di bulimia mediatica"



Riforme, Berlusconi ai democratici
"Dialogo solo con divorzo da Di Pietro"

Silvio Berlusconi con Umberto Bossi

ROMA - "Il dialogo sulle riforme sarà possibile solo con il divorzio del Pd da Di Pietro". Il premier Silvio Berlusconi, pur dicendosi "pessimista" fissa i paletti per il dialogo con l'opposizione sulle riforme, a partire dalla giustizia, che nei prossimi mesi saranno presentate in Parlamento.

"Di Pietro - è la spiegazione del premier - è irrecuperabile, è il giustizialismo fatto persona. Lo dice tutta la sua storia". Il divorzio tra Veltroni e l'Idv, ha aggiunto, "è necessario, ma è il Pd che deve scegliere quale identità darsi, oggi è incerto, non sanno neppure di quale famiglia europea far parte".

Per le riforme, del resto, lo stesso presidente del Consiglio aveva stilato un calendario. Ribaltando le priorità indicate appena due giorni fa, Berlusconi aveva detto a Sky che viene "prima il federalismo poi la giustizia". "A seguire - aveva aggiunto - faremo le altre importanti riforme". Parziale marcia indietro da parte del presidente del Consiglio anche sul presidenzialismo, obiettivo, ha chiarito, che "non è all'ordine del giorno" ma potrà essere messo sul tavolo "eventualmente nella seconda parte della Legislatura", ma sempre "con il concorso di tutti".

"Una parte specifica della Costituzione - ha insistito Berlusconi - può cambiare ma si deve avere il consenso di tutte le forze politiche. Non ho mai detto che vogliamo cambiare la Costituzione da soli. Lo faremo da soli se vi saremo costretti per un comportamento irragionevole dell'altra parte".

Ma del consenso sulle riforme prospettate il premier è certo. A proposito delle intercettazioni, dopo aver minacciato di "cambiare Paese se uscirà una mia telefonata", il premier ha detto: "Non è mai veramente democratico un Paese nel quale tutti hanno il timore di essere intercettati". Sulla riforma della giustizia e sulle misure in materia di intercettazioni "una sinistra che non partisse da un presupposto antagonistico nei miei confronti, dovrebbe essere d'accordo. Visto che queste cose si sono rivolte contro il Pd", ha detto Berlusconi.

Il cavaliere ha spiegato che nei suoi discorsi "ho delle standing ovation sicure" quando affronta i temi delle intercettazioni e della separazione delle carriere. Su questi argomenti "serve il buon senso", e prendere atto di "tutte le accuse che sono finite nel nulla, e io ne so qualcosa", e del fatto che "i magistrati sono una casta e su questo nessuno ha più dubbi".

Dunque "che il sistema debba essere migliorato è cosa condivisa", anche se "ho sempre avuto fiducia nei giudici e sono sempre stato convinto che c'è un giudice a berlino, tanto che sono sempre stato assolto, alla fine". Di fronte al quadro descritto, "non capisco perchè la sinistra è contraria. Quando ero giovane la sinistra era garantista, e guardavo con simpatia da quella parte proprio perchè era il garantismo fatto politica". Solo una simpatia, perché "non ho mai votato a sinistra: ho votato Pli, Dc e Psi perchè ero amico di Craxi".

"La bulimia mediatica di Berlusconi è pari solo alla sua paura di dire la verità agli italiani - commenta la presidente dei senatori del Pd, Anna Finocchiaro. "Ancora annunci sulle riforme e sulla giustizia. Sulla crisi, proprio oggi che la Cgil conferma che i salari ei lavoratori italiani nel 2008 sono rimasti fermi, il solito appello all'ottimismo". "Sempre lo stesso copione - prosegue l'esponente del Pd - forse in un momento di tale difficoltà per il Paese sarebbe il caso di mostrare maggiore sobrietà e di fare meno chiacchiere. Le riforme si fanno attraverso testi scritti discussi in Parlamento. Li tirino fuori e vedremo. E la crisi, vera priorità del Paese si dovrebbe affrontare in un'altra maniera, non attraverso appelli all'ottimismo".

domenica 21 dicembre 2008

Passato e futuro dell'energia solare


di giorgio nebbia


Mentre scrivo (primi di ottobre 2008) il prezzo del petrolio sui
mercati internazionali è di circa 450 euro alla tonnellata; i primi
di luglio 2008, tre mesi fa, era 690 euro alla tonnellata. E'
finalmente finita la crisi petrolifera ? possiamo tornare tranquilli
in un mondo con la benzina e il gasolio a basso prezzo per la maggior
gloria dei fabbricanti di SUV e di potenti automobili ? in un mondo
in cui l'elettricità fluisce a basso prezzo nelle case, nei
computers, nei forni fusori dei metalli ?

Può anche darsi che sia così, ma sarebbe un grave errore tradurre
questa speranza in un declino dell'utilizzazione delle fonti
energetiche rinnovabili, finora cresciute in un mercato drogato da
incentivi pubblici assicurati dalla grande paura del petrolio ad alto
prezzo e che verrebbero meno se si tornasse ad una situazione
energetica "normale". Altre volte rapidi frettolosi
entusiasmi "solari" si sono altrettanto presto dissolti.

L'energia solare è sempre stata figlia della scarsità. Quello che si
può pensare come il primo atto di questa storia comincia nella
seconda metà del XIX secolo: la società industriale dipendeva dal
carbone, usato in quantità così rilevante da far temere l'esaurimento
delle sue riserve e già riconosciuto come vistosa fonte di
inquinamento atmosferico. Di una possibile futura scarsità del
carbone aveva parlato l'economista inglese Stanley Jevons (1835-1882)
nel libro "The coal question", pubblicato nel 1865 e 1888 (una terza
edizione sarebbe apparsa nel 1906). Allora in tanti si misero a
guardare al Sole come fonte di energia, sia come surrogato del
carbone, sia nella prospettiva di sviluppo di attività economiche
nelle colonie africane. Nel 1863 il fisico italiano Antonio Pacinotti
(1841-1912) aveva pubblicato le sue prime osservazioni sull'effetto
fotovoltaico e termoelettrico, di cui suggerì l'applicazione per la
produzione di elettricità dal Sole. Il francese August Mouchot (1825-
1912) negli anni 60 e 70 dell'Ottocento costruì delle macchine con le
quali, mediante specchi, produceva vapore che alimentava un motore;
tale invenzione riscosse una grande attenzione in tutto il mondo; nel
1866 la macchina fu mostrata a Napoleone III che assegnò un premio
all'inventore; una versione perfezionata fu presentata
all'Esposizione Universale di Parigi del 1878.

Su un altro piano, non ingegneristico, Lev Tostsoi (1828-1910) nel
1873, in un "ragionamento" inserito nei "Quattro libri di lettura",
una delle grandi opere di pedagogia popolare dello scrittore russo,
aveva scritto: "Il Sole è calore" e aveva spiegato che dal calore del
Sole vengono la legna e il carbone, l'erba e il cibo, il vento e
l'acqua che muovono i mulini --- o, come diremmo noi, la biomassa,
l'energia termica, eolica, idrica. Addirittura lo scrittore di
fantascienza Kurt Lasswitz (1848-1910) scrisse un romanzo, "Auf zwei
Planeten", nel 1897 in cui si parlava dell'uso dell'energia solare.

Nel 1872-74 l'ingegnere cileno Carlos Wilson aveva costruito
nell'altopiano cileno un grande distillatore capace di assicurare per
molti decenni acqua potabile agli operai delle miniere di salnitro
(se ne è fatto cenno in un articolo precedente). Nel 1884 l'americano
John Ericsson (1803-1889) aveva costruito un motore solare che aveva
attratto molta attenzione in tutto il mondo. Negli stessi anni il
fisico tedesco Friedrich Kohlrausch (1840-1910) aveva indicato, nel
libro "Die Energie der Arbeit" del 1900, l'elettricità ottenuta
concentrando il calore solare su macchine termiche, come la fonte di
energia che avrebbe liberato "l'uomo" dalla fatica del lavoro. Il
1800 si chiude con la grande esposizione universale di Parigi del
1900 nella quale Rudolph Diesel (1858-1913) presenta il suo motore a
combustione interna alimentato con olio di arachide (se ne è parlato
qualche tempo fa in questo giornale).

Il primo decennio del Novecento è anch'esso pieno di fermenti e di
invenzioni. Il professore italiano Giacomo Ciamician (1857-1922) in
due celebri conferenze nel 1903 e poi nel 1912, pensava che un
giorno, con l'energia solare "le industrie sarebbero ricondotte ad un
ciclo perfetto, a macchine che produrrebbero lavoro colla forza della
luce del giorno, che non costa nulla e non paga tasse !"

Nel 1909 il fisico inglese J.J. Thomson (1856-1940) nella relazione
iniziale del Congresso della British Association a Winnipeg, parla
del Sole da cui un giorno l'umanità potrà trarre l'energia necessaria
alle sue attività. "Quando verrà questo giorno i nostri centri di
attività industriale saranno forse trasportati nei roventi deserti
del Sahara". Il tedesco August Bebel (1840-1913) nella 50a edizione
del suo libro "La donna e il socialismo", del 1909, parla a lungo di
un mondo socialista in cui l'energia solare sostituirà la fatica
umana e cita Kohlrausch e Thomson.

Negli stessi anni si moltiplicano le notizie di invenzioni e macchine
solari, realizzate da Clarence Kemp, Aubrey Eneas, Charles Tellier,
Henry E. Willsie, Frank Shuman (1862-1918) e tanti altri. Nel 1903
Charles Henry Pope (1841-1918) pubblicò un libro intitolato: "Solar
heat. Its practical applications". I primi quindici anni del
Novecento videro al lavoro scienziati e inventori in tutti i paesi,
una multinazionale delle energie rinnovabili: solare, del vento,
idroelettrica, figlia anch'essa della forza di caduta delle acque
tenute in moto dal Sole. Gran parte di tutto questo è stato spazzato
via dalla I guerra mondiale.

Il secondo atto della storia solare si ebbe fra le due guerre, nel
periodo delle "autarchie", al plurale, perché le stesse soluzioni
sono state adottate nelle varie autarchie, quelle fasciste (in
Italia, in Germania, nella Francia occupata dai nazisti), ma anche
quelle dell'Unione Sovietica, degli Stati Uniti, dell'Inghilterra. Le
autarchie hanno in comune alcuni caratteri, fra cui, appunto, il
ricorso a fonti energetiche rinnovabili (solare, eolico, biomassa).

L'alcol etilico ottenuto per fermentazione dai carboidrati ricavati
dalla biomassa vegetale "solare" è stato usato come carburante per
motori a scoppio e, prima dell'avvento della petrolchimica, come
materia prima per la sintesi del butadiene necessario per la gomma
sintetica, un butadiene dalla biomassa, quindi. I "gassogeni",
applicati a varie macchine e veicoli, avevano un fornello nel quale
veniva scaldata della legna (biomassa solare anche lei) che si
scomponeva in idrogeno e ossido di carbonio, miscela di gas che
venivano poi avviati nei motori.

Negli anni 1920-1945 sono state costruite case solari negli Stati
Uniti, distillatori solari dagli italiani in Libia e dagli americani
per le forze armate, motori eolici in tutti i paesi; in Italia la
società Vivarelli di Grosseto ha diffuso motori eolici, per sollevare
l'acqua dai pozzi, nelle zone della riforma fondiaria in Toscana;
sarebbero poi stati utilizzati anche in Puglia dopo la II guerra
mondiale. Vengono, per esempio realizzati i primi motori eolici su
larga scala, verticali, come quelli del tipo Savonius e derivati,
intorno al 1920, e del tipo a pale, come quello di Putnam degli anni
trenta, nel Vermont, negli Stati Uniti. Macchine solari e motori
eolici sono stati costruiti, dopo la Rivoluzione, nell'Unione
Sovietica nel quadro della modernizzazione dell'agricoltura. Nel 1931
fu costruito a Yalta un motore eolico della potenza di 100 kW, con
rotore di 30 metri di diametro e produzione di 280.000 kWh elettrici
all'anno.

Sempre negli anni trenta il francese George Claude (1870-1960) ha
costruito a Cuba il primo impianto che produceva elettricità con
motori azionati dalla differenza di temperatura fra gli strati
superficiali degli oceani, scaldati dal Sole, e quelli freddi
profondi a temperatura costante; si moltiplicarono le invenzioni per
l'utilizzazione della forza del moto ondoso, figlio del vento e
quindi del Sole.

Per la seconda volta tutto è stato spazzato via dalla II guerra
mondiale.

Atto terzo: alla fine della II guerra mondiale un mondo devastato era
affamato del bisogno di ricostruzione e di energia. Negli anni dal
1950 al 1965 non si capiva bene se le promesse dell'energia nucleare
sarebbero state mantenute, i paesi usciti dallo stato coloniale
chiedevano nuove quantità di energia; il Sole sembrava la grande
soluzione anche per i paesi poveri. Si è così avuta l'invenzione
delle fotocelle a semiconduttori nel 1952; furono costruiti
distillatori solari, case solari, macchine solari. Ci si ricordò che
l'acqua calda e l'acqua fredda in grandi corpi idrici si stratificano
senza mescolarsi e che tale stratificazione può alimentare macchine
termiche: acqua fredda al disotto negli oceani tropicali (macchina di
Claude a Cuba); acqua calda al di sotto nel lago degli Orsi in
Transilvania (stagni solari). Una grande conferenza delle Nazioni
Unite sulle "nuove" fonti di energia si tenne a Roma nel 1961, ma fu
seguita da un'ondata di petrolio a basso prezzo e di nuovo da un
declino della "passione solare"; migliaia di documenti sono finiti in
archivi dimenticati o al macero.

Atto quarto: alla fine del 1973 cominciò un rapido aumento del prezzo
del petrolio, passato in pochi mesi da tre a oltre undici dollari (di
allora) al barile; in tanti allora riscoprirono che ci si poteva
liberare dalla schiavitù dei combustibili fossili ricorrendo
all'energia solare e alle fonti rinnovabili. Fiumi di soldi pubblici
e di finanziamenti piovvero su centri di ricerca – i
celebri "Progetti finalizzati" del CNR --- e su imprese per
reinventare ancora altre macchine e dispositivi solari, fino al
ritorno dell'ordine nei mercati dell'energia, alle illusioni sul
nucleare e tutto il solare finì ancora una volta in archivio.

Il quinto atto è quello che viene recitato dagli inizi del XXI
secolo; ancora una volta aumenti del prezzo del petrolio, "curva di
Hubbert" e pericolo di esaurimento delle riserve di idrocarburi,
effetto serra, hanno ridato fiato alle fonti innovabili, dai pannelli
ai grandi progetti di bioetanolo e biodiesel, ai grandi impianti a
concentrazione, gigantizzazione di cose già viste e fatte e
accantonate, e anche alla voglia di soldi pubblici. Non vorrei che le
nuove turbolenze del mercato energetico e i nuovi sogni del nucleare
finissero per fare dimenticare tutto, per fare accantonare di nuovo
le fonti rinnovabili che, sono convinto, rappresentano l'unica
possibile via per l'energia del futuro, nei paesi industrializzati e
in quelli poveri, con diverse soluzioni progettate e adattate caso
per caso.

Essenziali a questo fine sono il coraggio di guardare al futuro e la
storia. La sopravvivenza delle esperienze, dei successi e anche degli
errori, dovrebbe essere compito di uno Stato che avesse a cuore il
bonum publicum, ma a giudicare dalla povertà degli archivi
sull'energia solare c'è poco da stare allegri. Per quanto ne so
l'unico archivio solare esistente è privato, ma al servizi di tutti,
e si trova presso la Fondazione Luigi Micheletti di Brescia
www.musil.bs.it inventariato e sistemato nella nuova sede della
Biblioteca, archivio e museo della tecnica a Rodengo Saiano, vicino
Brescia, con molte centinaia di metri di documenti, libri,
fotografie, disegni del passato solare. Per chi vuole cominciare o
ricominciare con le energie rinnovabili, lì c'è tutto.

domenica 14 dicembre 2008

CVD

Come volevasi dimostrare le dimostrazioni si sono tranquillizzate e il decreto passa senza tanti disturbi e nessuno se lo caghera neache di striscio....
Sempre la solta storia : "noi questa volta non ci fermiamo davanti a niente" sti finti rivoluzionari...


Dopo l'intesa governo-sindacati il ministro parla di piccola correzione di rotta
ma di fatto sul maestro unico a decidere saranno genitori e scuole

Gelmini: "Nessuna retromarcia"
Ma i documenti la smentiscono

di SALVO INTRAVAIA


Gelmini: "Nessuna retromarcia" Ma i documenti la smentiscono

Manifestazione contro la riforma Gelimini

Ventiquattro ore dopo l'inattesa marcia indietro del governo sulla scuola restano diversi dubbi. Insegnanti e dirigenti scolastici si chiedono: ma il maestro unico c'è oppure no? Secondo il ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini, quella di ieri pomeriggio è stata soltanto una piccola correzione di rotta sul piano e "non c'è nessuna retromarcia".

"E' tutto confermato", dichiara il giorno dopo la responsabile del dicastero di viale Trastevere che aggiunge: "Un unico maestro sarà il punto di riferimento educativo del bambino e viene abolito il modello a più maestri degli anni 90". Per la Gelmini, quindi, per il cosiddetto "modulo" di tre insegnanti su due classi è tempo di andare in soffitta. "Chiunque affermi in queste ore che è cambiato qualcosa sta semplicemente dicendo una falsità - incalza - e cerca in maniera strumentale di mettere in discussione la linea del governo che non è mai cambiata e che non cambia".

Ma come stanno le cose? Per stabilirlo basta rileggere le carte. La versione del Piano-Gelmini passata dalle commissioni di Camera e Senato (atto numero 36) in proposito dice che "nella scuola primaria va privilegiata l'attivazione di classi affidate ad un unico docente e funzionanti per un orario di 24 ore settimanali". Per il governo "tale modello didattico e organizzativo, infatti, appare più funzionale all'innalzamento degli obiettivi di apprendimento, (...) favorisce l'unitarietà dell'insegnamento soprattutto nelle classi iniziali, rappresenta un elemento di rinforzo del rapporto educativo tra docente e alunno, semplifica e valorizza la relazione tra scuola e famiglia".

Ma, chiamata a esprimere un parere, la commissione Cultura della Camera ha condizionato l'approvazione del Piano precisando che (punto d) "in relazione alla scuola primaria sia previsto che l'attivazione di classi affidate ad unico docente, funzionanti per un orario di 24 ore settimanali, sia effettuata sulla base di specifiche richieste delle famiglie e siano garantiti gli insegnamenti specialistici di religione e di inglese". E che (punto e) "sia stabilito il tempo scuola in funzione non soltanto delle esigenze di riorganizzazione didattica, ma soprattutto in ragione della domanda delle famiglie e pertanto siano garantiti differenti articolazioni dell'orario scolastico a 24, 27, 30 e 40 ore, mantenendo la figura dell'insegnante prevalente" secondo quanto previsto dal decreto Moratti.

E il testo dell'accordo tra governo e sindacati firmato ieri sembra proprio pendere verso questa strada. "In particolare, per l'orario a 24 (solo prime classi per l'anno scolastico 2009/2010) e 27 ore, si terrà conto delle specifiche richiesta delle famiglie", specifica il punto b del verbale. Non sembrano esserci dubbi. Saranno le famiglie e le scuole nell'ambito della loro autonomia, e non più il ministero attraverso la leva degli organici, a determinare quanti insegnanti entreranno in classe. A questo punto occorrerà aspettare le scelte delle famiglie. Quanti saranno i genitori disposti ad accompagnare i bambini alle 8 e riprenderli alle 12.30?

"Riteniamo più che positivo il ruolo attivo dato alle famiglie e ai genitori nel settore scuola grazie alla possibilità di scelta tra diversi modelli di orario e di conseguenza tra diversi modelli formativi", dichiara il movimento dei genitori (Moige) attraverso il suo responsabile. "Questo nuovo elemento lascia un margine decisionale importante ai genitori - continua Bruno Iadaresta - che potranno, quindi, decidere insieme alle autorità scolastiche il metodo educativo migliore per i propri figli".

Le altre novità, marcia indietro o no, riguardano le lezioni pomeridiane nel primo ciclo (scuola dell'infanzia, scuola primaria e media) che continueranno ad essere garantite. La scuola materna ed elementare a 40 ore, che continueranno a funzionare con due insegnanti per classe. La scuola media che, anziché 29 ore di orario obbligatorio, ne avrà 30. Il congelamento "in connessione con l'attivazione dei piani di riqualificazione dell'edilizia scolastica" dell'innalzamento del numero massimo di alunni per classe. Sarà, inoltre, "tutelato il rapporto di un docente ogni due alunni disabili" mentre la riforma della scuola superiore partirà dal 2010/2011.

Il governo si è anche impegnato "a costituire un tavolo permanente di confronto per ricercare le possibili soluzioni a tutela del personale precario attualmente con nomina annuale o fino al termine delle attività didattiche, per favorire continuità delle attività di insegnamento e di funzionamento" e "a prevedere, qualora le risorse di bilancio lo consentano, l'estensione degli sgravi fiscali previsti in materia di salario accessorio" anche per il personale della scuola.

La riforma del secondo ciclo (licei, istituti tecnici e istituti professionali), inizialmente prevista per il primi settembre 2009, partirà dal 2010/2011. L'informazione per famiglie e ragazzi sul "nuovo corso" inizierà dal primo gennaio 2009.

Dal 2009 partiranno i regolamenti riguardanti il Dimensionamento della rete scolastica, quello relativo all'intero primo ciclo e il regolamento sull'utilizzo delle risorse della scuola (del personale). I tagli, insomma, sono confermati ma con le modifiche apportate oggi potrebbero non raggiungere le 132 mila unità in tre anni previste dal Piano.
(12 dicembre 2008)

venerdì 28 novembre 2008

Mission: Impossible! Come valutare i professori di Giuseppe Lipari

La recente "riforma Gelmini" ha posto, almeno per il momento, il sistema universitario al centro dell'attenzione mediatica. Commentatori di professione dalle colonne dei maggiori giornali si sono da tempo lanciati all'attacco dell'attuale sistema universitario, nell'ottica di riformarlo e introdurre criteri meritocratici nei meccanismi di gestione.

Criticare è molto facile: e criticare un'istituzione decrepita, inefficiente, in moltissimi e documentatissimi casi teatro di malcostume e malversazioni da parte dei cosidetti "baroni", è particolarmente facile. Quando però si arriva al momento di mettere sul tavolo concrete proposte di riforma, il caos e il dilettantismo sembrano farla da padrone. Mentre tutti concordano sulla necessità di introdurre un astratto concetto di meritocrazia, passare poi ai provvedimenti da attuare concretamente è tutto un altro paio di maniche.

Una delle proposte che sta sul tavolo da tempo, ormai stabilmente nei desiderata del ministero, è quella di legare lo stipendio di ogni docente alla sua "produttività". Ne parlano, ad esempio, i colleghi Jappelli e Checchi su Lavoce.info:

Andrebbe una volta per tutte definito lo stato giuridico dei docenti, con indicazioni precise sul carico didattico e verifiche periodiche della produttività scientifica, cui condizionare la progressione economica, adesso solo basata sull'anzianità di servizio.

Ne parlano illustri docenti e ne parlano gli studenti (vedi la puntata di Annozero sull'Università di qualche giorno fa). Soprattutto, tale proposta si trova nelle Linee Guida del governo per l'università:

D.1 rivedere il meccanismo degli automatismi stipendiali, che non necessariamente premia la qualità della ricerca e l'impegno nella didattica, sostituendolo gradualmente con valutazioni periodiche dell'attività svolta;

D.2 elaborare parametri condivisi di qualificazione scientifica per l'accesso ai diversi ruoli della docenza, anche con l'utilizzo, ove possibile, di indicatori di qualità scientifica internazionalmente riconosciuti (impact factor; citation index): il CUN è già al lavoro in questo senso;"

Tutti d'accordo, quindi: gli scatti di anzianità automatici verranno presto sostituiti da verifiche periodiche centralizzate, al cui risultato legare la progressione di stipendio (incidentalmente, vi prego di notare che queste valutazioni periodiche sarebbero in aggiunta alle valutazioni periodiche delle università e dei dipartimenti: mentre con le prime si controlla lo stipendio dei docenti, con le seconde si controlla la quantità di fondi da destinare a ciascuna Università).

Siamo sicuri che sia una buona idea? Roberto Perotti pensa di no:

[...] molti perseguono in forme più o meno esplicite, una differenziazione degli stipendi diretta dal centro, sulla base di parametri rigidamente definiti. Ma una differenziazione centralizzata non può funzionare: è impossibile stabilire a priori quanto vale un ricercatore in ogni possibile situazione e circostanza. Anche l'unico criterio minimamente oggettivo, quello bibliometrico, può essere un utile aiuto, ma sarebbe insensato e pericoloso utilizzarlo meccanicamente come unica determinante degli stipendi.

Roberto Perotti, L'Università truccata, Gli struzzi Einaudi, 2008, pag 112

Forse Perotti esagera. Preso dal suo furore liberista, vuole liberalizzare financo l'ultimo caposaldo dell'università statale, ovvero la centralizzazione degli stipendi? In fondo se così tanti autorevoli personaggi ci dicono che è la soluzione giusta, e sta nelle linee guida del governo...

Poichè mi hanno insegnato a non fidarmi troppo di quello che mi dicono, proverò comunque a fare qui un piccolo esercizio di stile. Supponiamo che il ministro Gelmini mi chiami domani come consulente del ministero:

"Giuseppe, trovami il modo di implementare la linea guida D1!" (della D2 se ne occupa già il CUN).

"Ok, ministro, ma è un lavoro difficile e pericoloso, mi attirerò le critiche di tutti!"

"In cambio ti ricoprirò d'oro."

"Allora, accetto!". Per il bene della patria, naturalmente.

OBIETTIVO DELLA MISSIONE

Nelle linee guida, in effetti, c'è scritto pochino. Allora facciamo che gli obiettivi e le specifiche me li scrivo da solo, saranno forse più facili da raggiungere!

A che serve questa riforma? Ad aumentare la produttività dei docenti italiani, inserendo un meccanismo premiante direttamente sullo stipendio. Sarà quindi questo il principale parametro di valutazione delle nostre regolette: dovremo controllare alla fine se la produttività sarà aumentata.

Di quanti soldi stiamo parlando? Qui si va a senso. Direi che se l'obiettivo è di sostituire gradualmente il meccanismo degli scatti di anzianità con un meccanismo basato sulla valutazione (come recitano le linee guida), più o meno stiamo parlando dello stesso ordine di grandezza: invece di darteli automaticamente con il passare del tempo, ti sottopongo a una valutazione.

Si va solo a salire o anche a scendere? Se dobbiamo sostituire l'anzianità "as it is", convengono scatti piccoli solo a salire. Non mi sembra però una grande idea. Infatti, se l'incremento fosse in percentuale sullo stipendio, come è adesso lo scatto di anzianità, l'età giocherebbe comunque un fattore determinante: premierebbe chi da tempo fa ricerca, mentre il giovane ricercatore dopo la prima valutazione avrebbe comunque con uno stipendio limitato, anche se si trattasse di un novello Einstein.

Forse, per stimolare maggiormente la qualità, sarebbe meglio legare una parte sostanziale dello stipendio alla valutazione e prevedere che si possa anche scendere la volta dopo. Ad esempio, ogni 3 anni ti valuto: se vali, ti do un bel po' di stipendio in più per i prossimi 3 anni (per esempio il 30%-40% in più); se non vali, niente. Dopo altri 3 anni, però si ricomincia da zero. E si possono naturalmente avere sistemi misti. Inoltre, conviene che l'incremento di stipendio sia proporzionale al risultato. Si potrebbe assegnare ad ogni docente un voto da 1 a 10, da utilizzare poi per calcolare l'ammontare dell'aumento.

Naturalmente, il sistema deve essere "fair", cioè quanto più possibile equo. Devo effettivamente evitare di invertire la scala di valori fra due ricercatori, onde evitare ingiustizie, recriminazioni, faide. Stiamo andando a mettere le mani nelle tasche dei docenti italiani, dopo tutto (chissà perché, questa frase mi sembra di averla già sentita). Non dico che debba essere perfetto, ma insomma, quasi.

Dopo cinque minuti mi richiama il ministro: "dimenticavo di dirti che, qualunque cosa tu decida di fare, deve essere a costo zero per il paese: ogni euro speso nella valutazione verrà preso dal Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO)".

Chissà perché, me l'aspettavo.

VALUTARE UN DOCENTE

Un docente viene valutato in base a tre attività fondamentali:

1) Qualità e quantità della didattica.
2) Ricerca.
3) Attività organizzative.

Nell'ultimo punto, per comodità, metteremo tutte quelle attività non direttamente classificabili nei punti 1 e 2, come ad esempio coordinamento di progetti di ricerca, fund raising, editing di riviste internazionali, peer review, organizzazione di conferenze, partecipazione agli organi decisionali dell'Università (riunioni di facoltà, ecc.).

Tutti e tre gli aspetti sono importanti, naturalmente. Per quanto riguarda la didattica, c'è chi dice (ad esempio Perotti, ibidem) che in un sistema universitario funzionante non tocca alle istituzioni valutare puntualmente la didattica, perché il mercato degli studenti valuterebbe da se. Non so quanto questo sia vero, ma il tema è decisamente dibattuto e lo lascerò da parte per il momento.

Il punto 3 è il più controverso. Per esperienza personale si arriva a lotte intestine piuttosto aspre tra dipartimenti scientifici e tecnici (ingegneria in primis) da una parte, che riescono ad attirare fondi in gran quantità da enti pubblici e privati, e dipartimenti umanistici sempre cronicamente a corto di fondi dall'altra. Inserire la voce quantità di fondi di ricerca raccolti nella valutazione di ogni singolo docente potrebbe portare a notevoli distorsioni, oltre che ad asprissime polemiche. Eviterò quindi di prendere per ora in considerazione questa voce.

Concentriamoci quindi sulla ricerca.

LA VALUTAZIONE DELLA RICERCA

"Ci sono ormai metodi accettati a livello internazionale per misurare la produttività scientifica di un ricercatore".

Questa frase è stabilmente sulla bocca di tutti i fautori della meritocrazia (quindi praticamente di tutti). Sembrerebbe quindi un compito banale: usiamo questi benedetti indicatori. Purtroppo pochi di quelli che la pronunciano ne hanno mai visto in faccia uno.

Sostanzialmente, si misurano il numero di articoli pubblicati da un ricercatore su riviste o su atti di conferenze, e il numero di volte che ciascuno di questi articoli è stato citato in articoli simili da altri ricercatori. Il semplice numero di articoli è una mera misura quantitativa, che non dice niente sulla qualità; il numero di citazioni invece indica (o dovrebbe indicare) indirettamente il "gradimento" che ha ricevuto l'articolo nella comunità scientifica internazionale. A partire da queste due misure, si costruiscono indici bibliometrici più o meno complicati. Eccone alcuni qui.

I limiti di questi indici sono notevoli e ben conosciuti. Innanzitutto, la base di dati su cui fare le misurazioni non è univoca. Nelle materie scientifiche c'è ISI. Un altro è Scopus. In economia hanno Econlit. Purtroppo nessuno di questi copre bene Scienze dell'Informazione e Ingegneria. Esistono sistemi "liberi" come Google Scholar o Citeseer. Ma nessuno copre tutto lo scibile umano. E in tutti ci sono errori, omissioni, zone d'ombra. Se due database coprono lo stesso campo, la probabilità che diano la stessa misura sullo stesso ricercatore è praticamente nulla.

Inoltre, campi scientifico/disciplinari diversi hanno regole diverse: in alcuni campi si pubblicano di solito articoli con pochi autori, in altri il numero di autori è di solito elevatissimo. Ci sono campi per cui hanno valore soprattutto le riviste (vedi Economia, ma anche Scienze), mentre in altri campi certe conferenze hanno un prestigio a volte superiore alle riviste (vedi Computer Science & Engineering). Insomma, districarsi è complicato. Si potrebbe pensare un sistema diverso per ogni settore. Già mi immagino il disciplinare: centinaia o addirittura migliaia di pagine di regolamenti! (solo per scriverli ci vorranno anni di lavoro...)

Anche concentrandosi su un campo specifico, ci sono delle difficoltà tecniche non indifferenti. Supponiamo ad esempio di valutare un docente ogni tre anni per gli ultimi 3 anni di pubblicazioni. Se cominciassimo a valutare le mie pubblicazioni a febbraio 2009, prendendo in considerazione il triennio 2005-2008, quasi sicuramente la maggior parte degli articoli avrà un numero di citazioni praticamente prossimo allo zero. Lo so, sono un ricercatore scarso. Ma magari dipende anche dal fatto che, se ho pubblicato un articolo nel 2008, le probabilità che qualcuno lo abbia letto, lo abbia citato in un suo articolo che sia stato poi accettato da un processo di peer-review su un altra rivista e sia stato pubblicato e messo nel database, è praticamente nulla. In genere passano almeno 5-6 mesi dalla scrittura dell'articolo alla sua pubblicazione (e in certi casi si supera abbondantemente l'anno). Peggio: il processo di reviewing ha tempo variabile a seconda del settore! In Fisica sono di solito velocissimi; in Ingegneria sono di solito lentissimi (anche 2 anni).

Bisognerà quindi valutare ricerca più vecchia. Ma così facendo si riduce l'effetto del "premio". Essere premiato oggi per un articolo di 5-10 anni prima può fare piacere, ma forse non funziona tanto bene come meccanismo premiante. Più che altro premierebbe la carriera.

Anche contare il numero di citazioni può essere fuorviante. In alcuni rari casi succede che un articolo riceva un enorme numero di citazioni perché contiene un errore, che tutti citano come da correggere. Non è certo un articolo da premiare. In molti casi, un articolo riceve citazioni "negative" da ricercatori che contestano aspramente il metodo seguito. E' molto comune il caso di articoli che riassumono lo stato dell'arte in un campo: sono citatissimi da tutti, ma non contengono alcun contributo originale.

Inoltre, certi indici si possono in qualche modo manipolare artificialmente. Per esempio mettendosi d'accordo fra due gruppi per citarsi tutti gli articoli a vicenda. È poi pratica comune (e scorretta) in molti dipartimenti che il "capo" firmi comunque gli articoli di tutti i suoi sottoposti, anche se non li ha mai neanche letti. Egli si beccherebbe gli onori (e gli incrementi di stipendio) al pari dei suoi sottoposti, anche non facendo ricerca da decenni. Oppure, un lavoro importante potrebbe essere diviso in più articoli, ognuno propone un piccolo incremento rispetto al precedente. Con un lavoro vengono fuori 5-6 articoli minimo.

L'utilizzo esclusivo di sistemi automatici di misurazione è quindi da sconsigliare. David Parnas lo dice molto francamente in un suo recente articolo ("Stop the numbers game: Counting papers slows the rate of scientific progress.", Communications of the ACM, Volume 50, Number 11 (2007), Pages 19-21, web link):

Paper-count-based ranking schemes are often defended as "objective." They are also less time-consuming and less expensive than procedures that involve careful reading. Unfortunately, an objective measure of contribution is frequently contribution-independent.

e ancora:

The widespread practice of counting publications without reading and judging them is fundamentally flawed for a number of reasons: It encourages superficial research [...] It encourages repetition [...] It encourages small, insignificant studies [...]

e infine:

Evaluation by counting the number of published papers corrupts our scientists; they learn to "play the game by the rules." [...] Those who want to see computer science progress and contribute to the society that pays for it must object to rating-by-counting schemes every time they see one being applied.

In pratica: se utilizziamo esclusivamente sistemi automatici di misurazione, invece di incoraggiare la ricerca di eccellenza rischiamo di incoraggiare ricerca mediocre, o addirittura sporchi trucchetti per manipolare i numeri. Non è certo quello che vogliamo.

Due note prima di passare oltre. Primo: non si sta qui sostenendo che la bibliometria sia una disciplina inutile. Tutt'altro: essa ci da un enorme ed utilissimo supporto per rilevazioni statistiche a livello di paese, o per confrontare istituzioni anche di altri paesi. Anche nella valutazione del curriculum di un docente gli indici bibliografici danno un primo inquadramento, una valutazione di massima. Tale valutazione va però sempre e comunque integrata da un'attenta lettura delle pubblicazioni da parte di esperti del settore, proprio per evitare di prendere cantonate e per scremare il grano dal loglio. Un utilizzo scorretto degli indici bibliografici avrebbe alla lunga effetti negativi sulla valutazione stessa.

Seconda nota: non sembra che al ministero siano al corrente del pensiero di Parnas, dato che hanno incaricato il CUN di studiare modalità per inserire gli indici bibliometrici nei regolamenti dei concorsi!

Con gli indici ci è andata male. Rimane solo il peer-review. Ovvero la valutazione da parte dei "pari". Per ogni docente facciamo una commissione di tre esperti del settore che valutano la produzione scientifica. Mi sembra già di sentirvi: "una commissione per ogni docente? composta da docenti? finirà che tutti valuteranno tutti gli altri! I docenti italiani si valuteranno tutti da soli a vicenda! E quale sarà il risultato più probabile? Si auto-promuoveranno tutti!". Ammetto che il rischio è molto concreto. Potremmo inserire degli esperti stranieri... ma quelli non vengono a fare i valutatori in Italia in cambio di un semplice "grazie tante". Bisognerà pagarli. E poi chi ci assicura che questi stranieri siano bravi valutatori? Dite che bisogna chiamare i migliori? Comincia a diventare troppo costoso.

E poi la valutazione non sarebbe uniforme e oggettiva: ci sono valutatori buoni che tendono a dare sempre buoni voti e valutatori carogna che scarterebbero anche Shannon (è successo veramente!). L'equità andrebbe a farsi benedire. Tanto vale tirare dei dadi.

E allora come si fa? Forse che aveva ragione Perotti?

EPILOGO

"Caro Ministro. L'unica cosa che può funzionare è che ogni docente venga valutato dalla sua stessa Università. Se l'Università riceve i fondi soprattutto in base alla valutazione scientifica della ricerca; e se ogni Università ha libertà di stabilire il livello del compenso dei suoi docenti; i docenti migliori andranno naturalmente dove c'è più possibilità di veder riconosciuta la loro professionalità, e riceveranno naturalmente uno stipendio più alto. L'Università potrà decidere se valutare di più le capacità di fund-raising, o la capacità di creare un gruppo, oppure la produzione scientifica. Il sistema si autoregola."

"Caro Giuseppe, avrai pure ragione, non dico di no, ma se propongo questa cosa qui mi mangiano viva".

"Capisco. E allora lasci cadere la cosa. In fondo sono delle linee guida, no? Non c'è alcun obbligo di trasformarle in legge. Il paese è in recessione, fra un po' se ne scorderanno tutti. Piuttosto, se fossi in lei, spingerei sul pedale della valutazione delle Università. Su quella cosa lì, vedrà, potete farcela."

"Hai ragione, probabilmente lasceremo cadere la cosa. Un sentito ringraziamento per l'ottimo lavoro svolto per il paese e arrivederci!"

"Ehm, mi scusi ministro, ci sarebbe quella cosa del farsi ricoprire d'oro ..."

"Ah, già dimenticavo. Facciamo così, telefona a Giulio, dì che ti mando io."

Mmm, mi sa che butta male. Sarà per la prossima volta.

ULTIM'ORA

Sembra che al ministero lavorino alacremente (dal Corriere.it):

NORME ANTI-«BARONI» - Tra le novità introdotte in commissione al Senato, le norme anti-baroni: è prevista la costituzione di una anagrafe (aggiornata annualmente) presso il ministero con i nomi di docenti e ricercatori e le relative pubblicazioni. Per ottenere gli scatti biennali di stipendio i docenti dovranno provare di aver fatto ricerca e ottenuto pubblicazioni. Se per due anni non ce n’è traccia lo scatto stipendiale è dimezzato e i docenti non possono far parte delle commissioni che assumono nuovo personale. I professori e i ricercatori che non pubblicano per tre anni restano esclusi anche dai bandi Prin, quelli di rilevanza nazionale nella ricerca.

Chissà che ne penserebbe David Parnas...

lunedì 6 ottobre 2008

Riflessioni sul potere in Italia


di Marco Travaglio
(Giornalista)



da L’Unità del 2 ottobre 2008


Non c’è giorno che non ci domandiamo: com’è che ci siamo ridotti così?

Perché ciò che è normale nelle altre democrazie in Italia è eccezionale, e viceversa?

Per rispondere, basta ripercorrere la storia del potere in Italia senza ipocrisie né indulgenze autoconsolatorie.

Senza raccontarci le solite fiabe a lieto fine.

Perché la storia del potere in Italia non ha un lieto fine. E nemmeno un lieto inizio.

Roberto Scarpinato, magistrato siciliano, memoria storica dell’antimafia palermitana (e dunque appena degradato da procuratore aggiunto a semplice sostituto dalla scriteriata riforma Mastella), ha voluto partire dal Principe di Machiavelli per raccontare gli italiani agli italiani in un prezioso libro-intervista a Saverio Lodato: Il ritorno del Principe (Chiarelettere, pp. 347, 15,60 euro).

Lodato gli ha posto le domande giuste, Scarpinato ha dato le risposte giuste.

Non è l’ennesima storia della mafia. E una storia del potere che spiega anche la mafia. Ma anche il declino italiano, di pari passo con l’escalation della corruzione, della malapolitica, della malaeconomia, degli eterni piduismi e stragismi, protagonisti necessari del nostro album di famiglia.

Un libro raro che rivolta la storia d’Italia come un guanto e ne svela il «lato B»: quello che Scarpinato chiama «l’oscenità del potere» nel senso etimologico di «fuori scena»: «Quello degli assassini è spesso il fuori scena del mondo in cui tanti sepolcri imbiancati si mettono in scena».

La mafia militare addirittura come «servizio d’ordine» dei colletti bianchi, “lupara proletaria e cervello borghese”: lasciata senza briglie quando è utile al potere, ma scaricata e potata a suon di retate quando alza troppo la cresta o non serve più.

Il libro sorprende e lascia a bocca aperta.

In un altro paese susciterebbe polemiche e dibattiti furibondi, invece è stato subito avvolto da una coltre di imbarazzato silenzio.

Forse perché rovescia a uno a uno tutti i luoghi comuni, oltre il belletto delle fiction edificanti, quelle che da una parte schierano gli eroi dello Stato e dall’altra, a debita distanza, i mostri dell’Antistato.

Ecco, qui l’Antistato è parte integrante dello Stato.

Qui si parla di «morte dello Stato», della sua progressiva «mafiosizzazione» che rende quasi obsoleta, superata, superflua la violenza della mafia d’un tempo.

Oggi - dice Scarpinato - siamo in piena «post-mafia».

Il «concorso esterno» non è più quello di certi esponenti del potere nei confronti delle mafie: «è quello delle organizzazioni mafiose negli affari loschi di settori delle classi dirigenti».

Di rovesciamenti illuminanti come questo, il libro è pieno.

Si parla di «sicurezza» e si invoca «più carcere»?

Ma «il vero deterrente contro il crimine non è la galera: è la vergogna», che in Italia s’è estinta da un pezzo, anzi è usata per screditare la gente onesta.

Si invoca il «primato della politica»?

Ma nello Stato democratico liberale di diritto il primato è della Legge, cui deve inchinarsi anche la politica.

Si dice che gli italiani hanno la classe politica che si meritano?

No, è la classe politica che ha gli italiani che si merita, avendoli plasmati a propria immagine e somiglianza col controllo militare dei media e della cultura, che ha «azzerato la memoria collettiva».

Le pagine più devastanti sono quelle dedicate agli intellettuali italiani, quasi sempre «organici» al potere, nati e cresciuti come «consigliori del Principe», servili dispensatori di imposture, superstizioni, revisionismi, negazionismi e conformismi, sempre pronti a tradire la missione di coscienze critiche e intenti a giustificare gli abusi del potere.

«Oggi 9 italiani su 10 sono convinti che Andreotti è stato assolto e che la mafia è solo Provenzano».

«All’inizio del processo Andreotti - rivela Scarpinato - la Rai fu autorizzata a riprendere tutte le udienze; ma dopo averne trasmesse due, con audience molto elevata, la programmazione fu cancellata».

Dalle ruberie della Banca Romana al delitto Notarbartolo, dalle stragi dei sindacalisti siciliani all’eccidio di Portella della Ginestra, dall’intrigo del caso Giuliano-Pisciotta alle stragi degli anni 60 e 70, fino ai delitti politici degli anni 80 (terribili le tragedia greche di Mattarella e Dalla Chiesa), ai processi Andreotti, Dell’Utri e Cuffaro, alle bombe politiche del ‘92-’93, mentre lo Stato trattava con la mafia alle spalle dei cittadini in lutto, alla lunga pax mafiosa che dura tuttoggi, Lodato e Scarpinato ci accompagnano passo passo nel retro-bottega dell’ultimo secolo e mezzo di storia patria, in una «stanza di Barbablù» irta di scheletri e fantasmi, segreti e ricatti: segnata da quello che il pm chiama «il rapporto irrisolto fra classi dirigenti e violenza» in un paese dove «la criminalità fa la Storia».

Non è un caso - sostiene Scarpinato - se il Risorgimento, la Resistenza, la Costituente e il biennio magico di Tangentopoli e Mafiopoli sono oggi così impopolari: sono le sole parentesi felici in cui piccole élites liberali consentirono all’Italia di alzarsi in piedi oltre la propria statura media, ai livelli delle vere democrazie, salvo ripiombare regolarmente e rapidamente in balia delle eterne sottoculture autoctone dominanti, tutte autoritarie e illiberali: cattolicesimo controriformista, «familismo amorale», «machiavellismo deteriore» tutto rivolto all’interesse particulare ed «eterno fascismo italiano» scandagliato dai rari intellettuali disorganici come Flaiano, Sciascia, Pasolini e Montanelli.

Per questo la Costituzione va così stretta ai nostri politici, che da vent’anni fan di tutto per riscriverla: nella Costituente, per una provvidenziale «alchimia della storia», dominavano le culture liberali da sempre minoritarie.

Una parentesi eccezionale, miracolosa che partorì una Carta infinitamente più matura dell’Italietta arretrata e contadina del tempo, una «raffinata ingegneria della divisione bilanciata dei poteri» lontana anni luce dalle culture dominanti, tornate subito dopo al potere.

Insomma, uno smoking calcato addosso a un maiale.

Non appena la Costituzione cominciò ad essere attuata fino in fondo, in base ai principi rivoluzionari di solidarietà, di eguaglianza e di legalità, il Principe sentì tremare la terra sotto i suoi piedi e riprese prontamente il sopravvento, «svuotandola dall’interno».

Lo stesso accadde dopo il 1992-’93, quando la legge fu davvero uguale per tutti e dunque il Principe non potè sopportarlo, riportando rapidamente a galla gli eterni don Rodrigo, don Abbondio e Azzeccagarbugli. I tre santi patroni nazionali.

Amarissime, a tal proposito, le pagine sulla normalizzazione della Procura di Palermo, quando a Caselli subentrò Piero Grasso.

Qualche spiraglio resta aperto alla speranza. Mai illusoria o consolatoria. Responsabilizzante.

Scarpinato la coglie nel raro protagonismo civile degli italiani che rifiutano il rango di sudditi: i girotondi di qualche anno fa, le recenti manifestazioni in difesa di De Magistris in Calabria, la rivolta giovanile di Addiopizzo a Palermo e quella di parte della Confindustria siciliana contro il racket.

E indica una strada: cercare e pretendere sempre la verità.

Cita l’indovino Tiresia sulle rovine di Tebe, corrotta e malgovernata: «L’offesa alla verità sta all’origine della catastrofe».

Tiresia era cieco, ma vedeva tutto. I tebani avevano ottima vista, ma non vedevano più nulla.

martedì 30 settembre 2008

1000 Alitalia in one shot: so' forti 'sti Amerikani .... (II)

I apologize for being so verbose, but while writing I am trying to also clear my mind of its many confusions. Because nFA is a blog read by many people, I am also trying to make the argument at least partially understandable to readers not trained in formal economic theory. A machine translation into the Italian language is available (click the flag), which I hope to turn into readable, instead of laughable, Italian tomorrow.

Back to Earth

I ended the first part with a puzzle that seemed unsolvable. This was just to make sure I could keep your attention, because things are not nearly as bad as I made them appear; at least they are not nearly as bad when financial markets function "properly" and "normally". Here's why. As Filippo noted, the notional amounts are seldom if ever paid: they are used only to calculate the actual payments taking place between the two counterparts. Consider the case of a simple interest rate swap on a notional amount of $100 million. Neither party expects to ever have to pay $100 million to the other; instead A will pay to B the difference (0.7%, say) between the fixed and the floating rate in the reference period, time $100 million, that is $700K, which is a lot less than the notional. Also, many derivatives often expire without any payment or only a few payments taking place, other are balanced by the issuing of similar derivatives with the opposite sign, and so on. Further, for derivatives traded in organized markets (e.g. futures) on top of the fact that at settlement one must pay only the net loss (receive the net gain), the organized exchanges ask for margin deposits that are proportional to the open positions and force their closure whenever those margins cannot be reasonably met. In other words, I wanted to scare my readers a bit ... to drive home a point that Warren Buffet has repeated a number of times and to which everyone, including financial economists, have paid little attention.

The OTC derivatives market allows for the establishment of contractual obligations between financial institutions that may be impossible to satisfy, even in principle. In particular, OTC derivatives allow for the creation of a "pyramid" of financial promises that cannot possibly be satisfied because the amount to be paid, in certain states of the world, is larger than the value of total world wealth in those same states of the world. Call this point 1.

In models where individual portfolios are fully observable, beliefs over future states of the world are common (or, at least, they have a common support) and markets are dynamically complete, the situation conjectured in point 1 is impossible. This is because either B, before beginning to tango, will be able to correctly assess A's creditworthiness in all future states of the world and make sure it holds enough net real assets to back its promises to pay, or the rising costs that A faces in financing its portfolio positions will force it to diversify away its risk until the previous condition is in fact met, i.e. A has enough real equities to pay for its derivative commitments in case those come due and X (i.e. shit, for those that just tuned in) happens. Because economic theorists studying financial markets almost always assume these conditions to be satisfied, the fear that point 1 raises in the layman was not shared, until now, by financial economists.

Which begs the next question: along which dimensions did actual US financial markets violate the assumptions above? How about "all, and then some"? While I believe that "some" is the key, let me go through "all" first.

Earth is, indeed, different from the standard model

We teach that financial markets serve two purposes. They allow society to transfer resources from those who did the saving to those that would like to do the investing, which is good. We also teach that financial markets arrange transactions shifting the bearing of risks from those who do not want them to those who want them, in exchange for a fee. The latter function is considered of the utmost importance by financial economists, who spend a large amount of time showing how risk-bearing is reduced as financial markets become more "complete" - i.e. more independent securities are created; derivatives have been shown to be able to play a key role in this beneficial process - and economic allocations more efficient, in the sense of Pareto. An important caveat here is that we assume that there are two kinds of risks: the individual or diversifiable one (I gain, you lose) and the aggregate or undiversifiable one (we lose, or gain, together). While financial markets are magically capable of "dissolving" the first kind of risk, they cannot do the same for the second. The second is just shifted from one person to another in exchange for a fee, but the grand total remains constant independently of how many fancy securities there are out there. Let's keep this in mind.

We never teach that financial markets can be used to take bets, but this is what the second function implies. If A transfers some aggregate risk to B, then A may believe to be safer because B is now bearing its burden. But this is not really true unless B is capable, and willing, to cover the risk by means of actual equities, should the downside event take place. Hence, as before in point 1, risk-shifting is bounded by the total amount of resources available at any given point in time and, specifically, is bounded by the amount of actual equities the seller of insurance owns relative to the insurance it promised through derivative contracts. If you think of it this way, the whole thing becomes quite obvious, no? That's why, traditionally, we (i.e. the regulators and independent overseers that are supposed to act on behalf of citizens) make sure that insurance companies own lots of big and fancy buildings, good land, safe stock, oil fields, and so on ... pretty much like AIG did, right? Let us keep also this in mind.

Now, let me go back to my old example of A, B, C, etc. and make it a bit closer to what we are talking about. In the updated story B is a bank, holding a mortgage of $100 on a house with a market value of $111. B may have purchased that mortgage from someone else, which originated that mortgage by assessing incorrectly the risk that the borrower may default ... or which may have made a small - and for sure unintentional - mistake when typing in the income of the borrower in the loan application form (say, $70 instead of $50, which makes a big difference for the implied probability of defaulting ...). This does not matter at this point: clearly LOTS of things like these happened in the US mortgage market between 2000 and 2006, but our focus here is on the continuation. Hence, B values the mortgage at $100 on the asset side of its books, posting $100 in own capital on the other side, and nothing else. The banker running B feels there is a 50% probability that the borrower will default, in which case, via the foreclosure process, it would end up receiving only $50. B does not like to hold this risk, as it means that its net capital is really only $75 (i.e. $100 - 50x0.5), while the shareholders will approve the banker's hefty bonus of $15 only if net capital is at least $90. Hence B goes to A and buys insurance, say in the form of a CDS, promising to pay $90 no matter what in exchange for the proceedings from the mortgage. You may ask if A is stupid or something, and the short answer is "no". Clearly, something is happening here that is creating a profit, for B, of $15 out of thin air: the mortgage has an expected value of $75, so why should A promise B $90 for sure? There are various explanations for this, all of which I believe apply to the US 2000-2008. Here they are:

1. A assigns only a probability of 20% to the default event. People make random mistakes, we assume, so there are equally as many As assigning a probability of 80% to the default event. But these two groups do not cancel out because the first will sell insurance whereas the second will do nothing. Think of this kind of As as comprising all the "dumb/unlucky guys" that are always around financial markets but become particularly frequent when the market is bully.

2. B intentionally packages the mortgage in some "vehicle" that is confusing enough to lead A to believe it is better than it is. Indeed, this is what private information means, in this world! Think of these As as those guys that said "oops, we did not know what we had purchased", like UBS or SG.

3. A's own capital is only $4, which it will not mind losing should the default occur: 10/2 -4/2 = 3, which means a positive expected profits. Assume A is an investment bank, or an insurer, and pick your name among the now famous ones.

4. A is "betting" by taking up risk that cannot be diversified because it goes always the same way. For example, it may be purchasing very many of these mortgages (at a price of $90) by borrowing on the money market or issuing bonds. A (or should I call it F&F?) pays very low interest rates because markets perceive the Federal Government is backing A's liabilities.

5. The interbank market is flooded with liquidity at a very low nominal rate, say 1.5%. A cannot find any liquid security paying a decent return, while these deals on mortgages are liquid and seem to be paying a hefty return as long as the borrowers do not default. Call A Countriwide.

6. There is another character, called A', from which A plans to buy insurance against the risk of losing $40 in case of default. The character called A' satisfies one or more of the characteristics 1.-5. and charges $8 for this.

7. Repeat 6. as many times as you please, because the OTC derivatives market, which is neither regulated nor centrally organized, allows you to do so. All you need is that S&P, Moodys and friends keep saying you are a great credit. You pay their fees, so chances are they will.

Let me take home my second point.

Actual financial markets are much more imperfect than our theoretical models, whose crucial assumptions are often violated. This is well known, and things have always been like this, hence per se this is not big deal. What the existence of an unregulated OTC derivatives market plagued by private information allows is to leverage these common "frictions" dozens of time, creating, under the appropriate circumstances, a snowball that is, indeed quite big. Call this point 2.

All assumptions are violated, and then some

Let me conclude for today with the "some" that, in my opinion, happens to be the crucial one. That is: if point 3, coming next, had not been true the fact that points 1 and 2 were would have created some problems, but not the disaster we are apparently facing. It would have been, in other words, business as usual on Wall Street.

The key thing is that the probability of default on nominal loans with variable rates (and mortgages are nominal loans with, in recent years, very variable rates) is endogenous. It depends, first and foremost, on the nominal interest rate applied to the loan, which, in turn, depends on the nominal interest rate clearing the short term interbank markets that, in turn, is controlled by the Federal Funds rate. When those rates are low the rates on mortgages are low and liquidity is abundant: very many mortgages are issued and, if one has reasons to believe that the short term rates will stay low for quite a while, it is reasonable to expect the default rates will remain low. When those nominal rates increase, and nominal incomes do not increase likewise, the probability of default on those mortgages increases. This is what happened in the US during the 2001-2007 period due to the Federal Reserve "countercyclical" monetary policy.

Now, this is pretty normal and if those mortgages were held by the banks that had issued them and the latter had not yet "taken profits" on those mortgages, they would have set aside capital reserves to cover those losses. This is what is currently happening in Spain that has also seen a gigantic (in fact, proportionally much bigger than the US one) real estate boom (1997-2006) followed by a bust in the last two years. In Spain default rates on mortgages have tripled and interest rates have increased but, because (a) most mortgages are held by the banks that issued them, and neither (b) have been heavily securitized through derivatives nor, (c) have the "nominal profits" on those derivatives been cashed-in (either in the form of dividends or gigantic bonuses to the investment bankers) the financial system is very far from coming apart. In fact, it posted record profits even during the first semester of 2008, which I find rather surprising. In other words, for reasons that should by now be clear, the "nominal profits from derivatives issuing and trading" were not "taken" but set aside till the end of the life of the underlying mortgages. The opposite happened in the US.

What happened in the US, then? Simple: a derivative is a contract that involves a sequence of payments over a period of time. If you make real profits or not from a given derivative contract can be decided only once the derivative expires and the whole sequence of implied payments has been settled. But the current functioning of the OTC derivative market allows something different to happen. Using our simple example, here's the story. A mortgage is issued that, at current nominal rates, has a low probability of default. Insuring it is cheap and, by securitizing it, profits can be taken right away as the financing of the security is obtained at low nominal rates, insurance is cheap and the mortgage is off our hands in three days. This is quite fine, if the probability of default on that mortgage does not change due to altered (by the Fed's actions) conditions in the borrowing and lending markets. Should conditions remain constant, those initial profits would correspond to actual profits also at expiration. But in the meanwhile interest rates increase and default rates raise accordingly. This means that the derivative security linked to the underlying mortgage is actually loosing value and its prices should drop. But you have it in the book for 100 and writing it down to 80 is a problem, so for a while you borrow on the money market to finance the payments that, for example, the CDS you signed on forces you to. The opacity of the OTC markets allows you to do so, maybe by entering in even more derivative contracts. This goes on as long as you appear to be credit worthy to the counterparts, which is not forever. In the meanwhile pseudo profits are made, dividends are paid (these are peanuts) and bonuses are also paid to you (these are not peanuts). From the point of view of the theory this is money that should "stay in" (in the form of capital reserves of the investment bank or the insurer underwriting the CDS) to cover (via its capitalization at risk-adjusted market rates) for possible future losses. But this is not what happened: the capital reserves to cover future losses did not "stay in", they went out to the mansion in the Hamptons. Call this point 3.

When shit hits the fan, oops X happens, you have no capital reserves, hence you are not credit worthy, hence no one lend to you and you are maybe insolvent and certainly illiquid. Hence you go the way of Bear Sterns or Lehman Brothers ...

To quote, with a small [alteration], Robert Solow:

[...] the hedge-fund operators [read: investment bankers] and others [fill in the name of your preferred banker] may earn perfectly enormous incomes. (Margaret Blair of the Brookings Institution was one of the first to point this out.) If they are clever enough, and they are, they can arrange their compensation packages so that they batten on profits and are shielded from losses.


This is because, in the actual financial environment of USA 2001-2008, (pseudo) profits from derivatives came earlier - when interest rates were low, hence expected default rates were low - and (very real) losses came later - when interest rates increased, hence actual default rates also did - and had to be absorbed by the little capital left in the firm, which was not enough. The actual capital reserves had been taken out by calling them "profits". This is point 3 again, only shortened.

Because it is late, I hope it is now clear why it took the convergence of all three contingencies, summarized as points 1, 2 and 3, for this disaster to happen. Any two of them without the third would have not, I believe, caused the big mess we are currently into.

In this sense this is an "exceptional event", and it needs not imply the "end of capitalism". But, in an another sense, it is and was a perfectly predictable event: various people wiser than myself (e.g. Mr. Warren Buffett) had pretty much predicted it a few years back. We, the academic economists, were blind to the facts and did not see it happening because we assumed the deviations of reality from our "standard model" to be quantitatively small. We were mostly wrong, and a few wiser people were right. More than anything, though, I believe we did not see that the particular nature of derivative contracts (their being "zero sum games, if no one cheats") together with the private information that plagues the OTC derivative markets allowed for gigantic (pseudo) profits-taking of funds that were, according to the theory and should have been in fact, capital reserves that had to be "left in the firm" to serve until the life of the derivative contract. But derivative contracts, these misterious zero net supply securities, allow for redistributing wealth from B to A at points in time that preceed their expiration, and redistributing to oneself very large sums of money (in a perfectly "legal" way) is a temptation no one can easily resist. Investment bankers may not be wizards, as they often portray themselves, but they are certainly humans.

Quite correctly bygones are bygones and, in the unlikely event this analysis will be found convincing, it still does not tell us what to do NOW given the current circumstances. In particular, should we go the way that Bernanke and Paulson are pushing us to go? Is there another and better way? I am not sure, but I believe a narrow but clear other way can be found on the basis of this analysis and similar ones developed by other. To the issue of "WHAT TO DO NOW" I hope to turn soon in the third part of these thoughts.

1000 Alitalia in un colpo solo: so' forti 'sti amerikani ... (I)

Azioni e Derivati

Poiché discuteremo di "attività finanziarie" e "derivati", fatemi cominciare con un'introduzione, per chi non ha familiarità con questa terminologia, su cosa siano queste cose. Un'attività finanziaria dà, in generale, diritto ad un futuro (e incerto) flusso di pagamenti, che proviene da una certa "fonte" e che si verifica in "determinate circostanze". La precisazione del tipo di "fonte" ci aiuta a distinguere tra due tipologie di attività finanziarie, basandoci sulla natura della loro "fonte". Chiamiamo la prima "titoli a offerta netta positiva" e la seconda "titoli a offerta netta nulla" o, in breve, "azioni" e "derivati". Ovviamente, le azioni in senso stretto ed i derivati classici (ad esempio, le opzioni) sono casi speciali di ciò che io chiamo qui "azioni" e "derivati".

Perché si possa parlare di "azioni" deve esistere un qualche investimento reale (un albero, un cavallo, una casa, un campo di petrolio, una società, e così via) sui cui proventi (incerti) il possessore dell'azione possa vantare un diritto. Questi investimenti sono "reali" e le azioni dovrebbero rifletterne il valore: da qui la definizione di titolo a offerta netta positiva. Si noti che, anche se non c'è la schiavitù, l'esistenza di diritti di proprietà intellettuale e di altri strumenti contrattuali rende possibile che le azioni diano legittimo diritto sui frutti (incerti) del lavoro di qualcun altro, attraverso il possesso dell'impresa dove quel qualcuno lavora, e così via. Insisto su questo punto per chiarire che un sacco di "cose" possono essere possedute tramite un qualche genere di azione. Infatti molte lo sono e, almeno teoricamente, TUTTO ciò che ha un qualche potenziale produttivo è un investimento materiale il cui possesso può strutturarsi tramite azioni. Siccome il flusso annuale di beni e servizi che chiamiamo PIL (in realtà è molto più di tutto ciò, ma lasciamo perdere i dettagli) è il prodotto degli investimenti materiali esistenti, e il valore delle azioni nient'altro è che il valore attuale scontato dei frutti (incerti) prodotti da un qualche investimento reale, otteniamo la seguente semplice implicazione, che è rilevante per capire il casino in cui ci troviamo.

Il valore di mercato di tutte le "azioni" è uguale al più (cioè nel caso in cui il possesso di tutti gli investimenti produttivi fosse rappresentato da azioni) al valore attuale scontato di tutti i PNL futuri (attesi) che gli investimenti esistenti possono produrre. In altre parole, il valore di mercato di tutte le azioni di un paese (o del mondo, se vi piace pensare in grande) è limitato superiormente ad un multiplo del PIL attuale (del paese, del mondo).

Per dare un'idea dei numeri in gioco, seguitemi in questi calcoli. Attualmente stimiamo il PIL statunitense per il 2008 a circa 15 trilioni di dollari e la mia amica Ellen McGrattan (che questi numeri li conosce bene) stima che lo stock di capitale statunitense (immobili compresi) sia circa 4 volte tanto (Ellen, vado a spanne). Cioè circa 60 trilioni di dollari. Ora, questo calcolo è un po' falsato, visto che il PNL contiene anche i frutti del lavoro, e del lavoro si tiene conto nello stock di capitale, in forma di azioni, solo molto, molto parzialmente. Quindi, volendo attenersi strettamente alla teoria, ai 60 trilioni bisogna aggiungere il valore (implicito) capitalizzato del lavoro e del capitale umano, raggiungendo così un numero attorno a 150 trilioni di dollari - per farlo, considerate che il reddito da capitale è poco più di 1/3 del PNL e assumete che il rendimento del capitale umano e del lavoro in termini di PNL sia circa lo stesso di quello che gli economisti chiamano "capitale fisico". Se aggiungete a questo il valore (implicito) di tutte le altre cose prodotte ma non scambiate sul mercato (la vostra cena, per la parte cucinata, o la vostra maglia pulita e stirata se ve lo fate da soli, o il valore di mercato di fare o non fare altre cose, più piacevoli, a letto, et cetera) potreste ottenere un numero anche più grande, e io non ho idea di quanto possa essere. Diciamo 300 trilioni di dollari: quel che conta è che sia un numero finito.

Ora, passiamo ai derivati: titoli finanziari a offerta netta nulla. Al contrario di un'azione, che, per esistere, richiede una sola persona e un solo investimento, un derivato assomiglia un po' a un tango: ci vogliono 2 (persone) per farlo, ma l'investimento reale non è strettamente necessario. Funziona così. Il signor A dice alla signora B: "se l'evento X accade in un giorno stabilito D, ti do 100 dollari, altrimenti non ti do niente; quanto sei disposta a darmi oggi in cambio della mia parola su questa promessa?". Se la B dice: "Ti do P-dollari" e A dice: "ok", è nato un derivato. Ovviamente quel che A dice a B può essere molto complicato, e può coinvolgere un sacco di circostanze diverse (cioè se alla data D accade X, io pago 100, se invece abbiamo Y aspettiamo fino a D' in cui, se accade X', allora pagherò 40, ma se succede Y' allora pagherò 3 e se invece succede Z' allora aspettiamo D'', et cetera). Le cose che possono succedere sono tutte quelle concepibili ed osservabili - o meglio: qualunque cosa che A e B potranno osservare alla data D, su cui siano d'accordo quando ballano insieme (oops, quando creano un derivato). E una volta arrivati in D, chissà ... la cosa è rilevante per il nostro ragionamento, ma non fatemi saltare troppo avanti - e i pagamenti possono andare in entrambe le direzioni. In ogni caso, quando A e B creano un derivato, sono d'accordo su un prezzo P>0, che è pagato, poniamo, da B ad A. A questo punto siamo nelle mani della Fortuna: la B spera che in D accada il lieto (almeno per lei) evento e si augura che A mantenga la parola, o meglio, sia in grado di mantenerla e la paghi.

Ora, si noti questa cosa: un derivato non ha, in questo senso che spero sia chiaro, niente a che fare con gli investimenti reali e con il loro prodotto, almeno in principio. Di certo molti derivati sono costruiti in relazione al comportamento di alcuni investimenti reali sottostanti, o almeno, ad azioni (vedi qui per dettagli più tecnici) ma questo non è necessario. Quando scommettete 10 dollari con i vostri amici che domani pioverà a San Francisco avete creato un derivato, e così quando comprate una qualche forma di assicurazione per la vostra macchina, o quando comprate un biglietto della lotteria: ognuno di noi fa trading in derivati e lo facciamo fin dall'antichità; non c'è bisogno di avere un PhD in fisica o di andare al Chicago Board of Trade per farlo! Per questa ragione, il numero e, più importante, il valore dei derivati POTENZIALMENTE esistenti in qualunque istante è...infinito! Beh, in realtà non è così, perché SE fossero correttamente prezzati e SE le cose fossero propriamente fatte, il loro valore andrebbe sempre a 0: sono titoli a disponibilità netta nulla, o "giochi a somma zero, se nessuno bara", come mi piace definirli. Riassumendo: (I) un illimitato numero di derivati può essere creato, indipendentemente dall'esistenza di investimeti produttivi "reali"; (II) se "propriamente prezzati" e se tutti i giocatori giocano correttamente, il valore netto totale del complesso dei derivati creati è comunque nullo; (III) i derivati sono strumenti o per assicurarsi o per scommettere, essendo le 2 cose di fatto la medesima a segno invertito; (IV) i derivati sono titoli re-distributivi: non sono associati alla creazione di nuovi investimenti produttivi (che è il ruolo delle azioni, in senso lato) ma di redistribuire ricchezza da A a B o da B ad A basandosi sugli esiti di eventi casuali su cui i giocatori si sono precedentemente accordati, eventi che questi ritengono di poter osservare e la cui probabilità sono in grado di stimare.

Come funzionano, teoricamente, i mercati dei derivati

Tra le altre cose, i fatti elencati fino ad ora implicano che, quando i mercati funzionano "correttamente", un cambio nel valore di un derivato può, di per sè, non implicare niente per il valore del complesso degli investimenti reali e viceversa. Un cambiamento del valore di un investimento reale sarà riflesso da una variazione del valore dell'azione che lo rappresenta. La variazione del valore del derivato che può essere stato scritto "su" quell'azione (investimento reale) determina solo CHI, tra i nostri personaggi A e B, guadagnerà dal cambiamento di valore dell'investimento reale e chi ci perderà. Inoltre, i fatti elencati sopra implicano che quando il valore dell'investimento sottostante (l'azione) cambia di △, il derivato associato può produrre guadagni (perdite) per A (B) pari a molte volte △ !

Siccome questo aspetto è molto importante, permettetemi di svilupparlo usando l'esempio più semplice fornito prima. Mettiamo che B offra 50 dollari ad A, in cambio della promessa che "se l'evento X si manifesta alla data D ti pago 100 dollari, se no non ti pago niente", e A accetti, così che possano ballarsi il loro tango. Bene. Mettiamo che A creda - per qualunque ragione; non ho alcuna intenzione in questo articolo di addentrarmi nel come la gente costruisca le sue aspettative, parlatene con De Finetti (o con il mio amico Paolo Siconolfi che, diversamente da De Finetti, è ancora vivo e sta benone) - che c'è il 10% di probabilità che X accadrà alla data D, e il 90% che non succederà. Se A non fa niente (A) si sta prendendo un rischio: vero, c'è solo un caso su 10 che X accada in D ma, se succede, A deve 100 dollari a B, e B gliene ha dati solo 50. Siccome, per farla semplice, D è domani e mancano 5 minuti a mezzanotte, non maturano interessi su quei 50 dollari. Quindi, o (i) A ha fondi propri per coprire i 50 mancanti nel caso in cui sfiga volesse (pardon, X accadesse) o (ii) A si assicura nel modo che vi dirò tra poco o, (iii) sta programmando di barare, il che è come dire che A si sta prendendo un rischio: il rischio di fallire sulla sua promessa (il derivato) a B. Prima di seguire i sentieri nelle oscure foreste della finanza moderna di Wall Street che (iii) ci apre, lasciatemi seguire (ii) per un attimo, cioè il cammino che i libri di finanza insegnano normalmente e che i mercati finanziari normali e adeguatamente regolati dovrebbero seguire.

In "mercati finanziari normali e adeguatamente regolati" aderenti a (ii), una delle seguenti (ed essenzialmente equivalenti) cose dovrebbero succedere. Un regolatore - non c'è bisogno che sia il governo, potrebbe essere un'affidabile parte terza che vigili sia su A che su B e che sia realmente imparziale (cioè non come S&P o Moodys...) e che abbia il potere di far rispettare le sue regole - forzerà in qualche modo A a metter da parte o altri 50 dollari (ulteriori ai 50 che A ha appena ricevuto da B) o qualunque altra cosa un buon padre di famiglia riterrebbe valere 50 dollari, per premunirsi nel caso in cui X accada. Ciò si può fare in un sacco di modi: ad esempio, ad A si può richiedere di cercare un sacco (N) di persone come B, stipulare derivati simili con loro fino a quando la legge dei grandi numeri possa realisticamente tenere. Mettiamo che N=100 sia abbastanza perché la legge valga. Allora A ha ricevuto 5000 dollari e potrebbe doverne pagare 10000 se X accadesse. Siccome la probabilità che X accada 100 volte in D è infinitamente piccola (così come lo è probabilità che accada 99, 98,...,51 volte), A (e i tanti B) non stanno rischiando di fallire. Finchè non accadono più di 50 X in D, A ha fondi per pagare quel che deve ai B designati. Ci sono altri modi in cui un mercato ben regolato può raggiungere lo stesso risultato. Per esempio, si può chiedere ad A di "riassicurare" i suoi rischi con C, che ha i fondi necessari per il caso in cui X accada più di 50 volte; oppure si può chiedere ad A di vendere alcuni dei derivati che detiene ad altri tipi di C che possono coprirne i rispettivi pagamenti, e così via. Notate come, in tutto ciò, molti altri derivati siano creati dall'originale e, siccome il processo di vendita della stessa scommessa (o di scommesse sulla scommessa originale, o di scommesse su scommesse su scommesse...) può essere ripetuto un numero infinito di volte, il valore nozionale del complesso dei derivati originati da quel semplice contratto iniziale tra il primo A e il primo B può diventare molto, molto, molto grande.

In tutti questi casi, tuttavia, se il meccanismo teorico stesse funzionando correttamente, i (molti) A che avessero scommesso sarebbero in grado di onorare il loro impegno nel caso in cui X accadesse. Per capire tutto ciò, immaginate che l'evento X nel contratto originale fosse "il prezzo di mercato della vostra (cioè di B) casa scenda di 10 dollari". La casa è un bell'investimento fisico e B lo possiede integralmente (il ragionamento non richiede mutui, per ora...) ma ha deciso di "superassicurarsi". Il che è un bene, e i derivati glielo consentono. Il punto è che la caduta nel valore dell'investimento reale è solo di 10 dollari per l'economia nel complesso, e B è quello che lo sopporterà e questo è il perché della (super) assicurazione. Ora A deve 100 dollari a B e, anche se c'è una catena molto lunga di derivati tra A e B, da B a C...fino a Z"", finché si raccolgono 100 dollari (mano a mano che questi contratti derivati sono soddisfatti) e questi finiscono nelle mani di A, A può pagare a B quanto gli deve. Per raggiungere questo risultato sono necessarie tre cose: (1) un ammontare di almeno 100 dollari in denaro o "credito" devono essere disponibili nel sistema; (2) nessuno degli individui coinvolti bara o si trova incapace di prendere i soldi e passarli alla persona successiva nella catena; e, last but not least, (3) 100 dollari di prodotto attuale, reale e consumabile (PNL), sono disponibili per la consegna a B in cambio di quei 100 dollari nominali. Queste tre condizioni sono cruciali, ma la (3) lo è anche di più: se non ci sono 100 dollari di prodotto reale e consumabile, ma solo 100 dollari di carta non consumabile, i prezzi cresceranno proporzionalmente (forse con quei lunghi e variabili lag di Milton) e B non riceverà realmente 100 dollari. Riceverà solo svalutati pezzi di inflazionata carta verde.

A volte accadono cose curiose

Sottolineo che, nelle nostre circostanze, il fatto che (3) non si realizzi è strettamente connesso all'occorrenza di (iii) (non (ii), (iii)). Al momento questo sembra essere il modo in cui noi (oddio, non io: la FED, il tesoro americano e tutti gli altri powerful guys) pretendiamo che (ii) stia accadendo quando, in realtà, è (iii) che si realizza. Prima di arrivarci, tuttavia, ho bisogno di analizzare altri due passaggi. Per prima cosa bisogna avere un'idea di quale sia il valore complessivo dei derivati oggi negli Stati Uniti, in modo da poter parlare di numeri veri. Poi, dobbiamo capire perché né (i) né (ii) sono successi, mentre (iii) sì e nessuno (nessuno?) se n'è reso conto fino all'altro giorno. La prima parte la faccio ora, la seconda, che è più lunga, dovrà aspettare domani o dopo domani. La terza parte infine discuterà del perché la "soluzione" che stiamo apparentemente portando avanti potrebbe essere tutto fuorché una soluzione. Detta meglio, è una soluzione per i pochi fortunati A, ma non per i molti sfortunati B. I derivati, ricordatevelo, sono meccanismi redistributivi ed è di una (gigantesca) redistribuzione di reddito e di ricchezza che si parla in questi giorni.

Qualche numero e un puzzle

Per stasera lasciatemi finire con le stime che avevo promesso. Quanto grande può diventare il valore nozionale dei derivati, complessivamente? Di certo molto grande. Ricordatevi che, usando le stime precise della mia amica Ellen, io avevo imprecisamente stimato il valore totale del capitale reale USA attorno a 300 trilioni di dollari. Nella pagina di Wikipedia sotto linkata leggiamo:

Over-the-counter (OTC) derivatives are contracts that are traded (and privately negotiated) directly between two parties, without going through an exchange or other intermediary. Products such as swaps, forward rate agreements, and exotic options are almost always traded in this way. The OTC derivative market is the largest market for derivatives, and is unregulated. According to the Bank for International Settlements, the total outstanding notional amount is $596 trillion (as of December 2007)[1]. Of this total notional amount, 66% are interest rate contracts, 10% are credit default swaps (CDS), 9% are foreign exchange contracts, 2% are commodity contracts, 1% are equity contracts, and 12% are other. OTC derivatives are largely subject to counterparty risk, as the validity of a contract depends on the counterparty's solvency and ability to honor its obligations.

"i derivati Over-the-counter (OTC) sono contratti (negoziati privatamente) scambiati direttamente tra 2 parti, senza servirsi di altri intermediari. Prodotti come swaps, FRA e opzioni esotiche sono quasi sembre scambiati in questo modo. Il mercato dei derivati OTC è il mercato di derivati più ampio, e non è regolato. Secondo la BIS, l'ammontare di nozionale in essere è di 596 trilioni di dollari (a Dicembre 2007). Di questo ammontare nozionale, il 66% sono IRS, il 10% CDS, il 9% FEC, 2% sono contratti su materie prime, l'1% su azioni, e il 12% di altro tipo. I derivati OTC sono largamente soggetti a rischio di controparte, dato che la validità di un contratto dipende dalla solvibilità della controparte e dalla sua capacità di onorare le sue obbligazioni".

Cioè: solo il mercato OTC (il quale, come vedrete, è la nostra principale preoccupazione in questa saga) ha un valore nozionale che è il doppio della mia stima "coraggiosa" del valore totale delle azioni di qualunque tipo, che includeva anche quelle che non esistono perché, per esempio e per buone ragioni, la schiavitù è proibita. Se ci fissiamo su quella che io ho annunciato come la stima di Ellen di quel che è lo stock di capitale in essere degli Stati Uniti, il rapporto è 10 (dieci). A questi derivati OTC bisognerebbe aggiungere quelli scambiati su mercati regolamentati, che la IBS stima essere attorno a 400 trilioni nel 2006. Ora questi numeri sono per il mondo intero, ma anche se assumessimo che quelli "relativi all'economia statunitense" siano solo il 20% dell'ammontare complessivo (e sono molto di più), staremmo parlando di 200 trilioni in valore nozionale di derivati, contro un stock di capitale attuale che è attorno a 1/4 e un PNL che è...5 trilioni inferiore di 1/10 di quella somma.

Quindi il puzzle: se solo 1/10 dei derivati "dovesse essere pagato" (quel che significa e chi debba pagare chi, lo vederemo nella seconda parte della trilogia) dove diavolo troveremmo il denaro? Anche stipando l'intero PNL degli Stati Uniti nei giardini dei fortunati vincitori del "tango game", chiamateli B, non solo ci affameremmo...ma ci mancherebbero anche 5 trilioni di dollari. Noccioline, no?

Bene, ma non hanno la FED e il Tesoro due stampanti, una per i dollari e una per il debito? Certo che sì! Rimanete in linea